sabato 13 aprile 2019

21° incontro - 20/03/2019
prof. vincenzo guglielmucci – ins. domenico maglione
“Giovanni Passannante: storia dell’uomo che attentò alla vita del re Umberto I di Savoia.”
Una interessante pagina di storia è stata raccontata dai nostri soci Prof. Vincenzo Guglielmucci e Ins. Domenico Maglione. Essi hanno ricostruito, attingendo a fonti scritte e a documentari, la tragica vicenda di Giovanni Passannante, nato a Salvia - ora Savoia di Lucania- che attentò alla vita del Re Umberto I di Savoia.
L'interesse per questa triste vicenda è nato, nel progettare questo incontro, dal desiderio di conoscere episodi e personaggi poco noti della storia regionale.
I due relatori, molto opportunamente, hanno organizzato la relazione in due momenti.
Il Prof. Guglielmucci ha inquadrato la vicenda Passannante nel contesto storico in cui si svolse mentre l'Ins. Maglione, in modo originale, è entrato nei panni del personaggio e ne ha narrato, in prima persona, la tragica storia, partendo dai primi approcci politici a Potenza, quindi a Salerno, per poi giungere alla progettazione dell’attentato al sovrano a Napoli.
Il prof. Guglielmucci ha iniziato la relazione inquadrando la vicenda nel periodo storico in cui si svolsero i fatti, partendo dal nome del paese che diede i natali a Giovanni Passannante, l’allora Salvia, il cui nome, come vedremo, fu poi mutato in Savoia di Lucania, proprio in conseguenza dei fatti che andremo a narrare. Anche il nostro paese, Oppido Lucano, nel 1863 mutò la propria denominazione in Palmira, ritornando in seguito a riappropriarsi del nome originario. Ha poi ricordato come nella vicenda ebbe un suo ruolo anche il poeta G. Pascoli che nel 1882 giunse a Matera con la nomina di docente di Latino e Greco nel Regio Liceo di quella città, ma che tre anni prima, nel 1879 fu tratto in arresto ed incarcerato per aver partecipato, a Cesena, ad una manifestazione di protesta contro la repressione scattata a causa dell’attentato al re accaduto un anno prima.
Perché proprio Napoli?
Il re Umberto I, da poco succeduto al padre Vittorio Emanuele II, insieme alla propria consorte Margherita, stava effettuando una serie di visite e si era recato a Napoli, per ingraziarsi i sudditi dell’ex Regno delle due Sicilie di cui Napoli era stata la capitale fino all’unificazione del Regno d’Italia. Ed è proprio in quella circostanza che avviene l’attentato al sovrano. Il professor Guglielmucci ha quindi descritto l’attentatore, ne ha tracciato i tratti salienti e, dopo aver commentato un video sullo stesso, ha passato la parola a Mimmo Maglione che ha vestito i panni di Giovanni Passannante raccontandosi in prima persona, fingendo un ritorno dall’al di là.
Si è presentato come segue:
“Buona sera. Mi chiamo Passannante, Giovanni Passannante, figlio di Pasquale e di Fiore Maria. Sono nato a Salvia, un piccolo paese in provincia di Potenza il 19 febbraio 1849 e sono morto, o meglio, mi hanno fatto morire a Montelupo Fiorentino, il 14 febbraio 1910. Sono l’ultimo di dieci figli, quattro dei quali morti in tenera età, per la miseria, per le malattie, per la mancanza di tutto. Io sono sopravvissuto, ma forse sarebbe stato meglio se fossi morto anch’io come gli altri quattro. In paese mi chiamano “Cambio”, non so perché, e nemmeno m’interessa.
Questa? (mostra una mano storpia) Eh, questa me la sono giocata nell’acqua bollente quando ero appena un ragazzino. Mi piaceva studiare, ma ho fatto solo la prima elementare, ho imparato a leggere e scrivere da solo, perché, per aiutare la famiglia ho dovuto lavorare fin da bambino: lavori occasionali, il guardiano di pecore, il domestico. A Vietri, ho fatto lo sguattero, e poi a Potenza, il lavapiatti presso l'albergo "Croce di Savoia", ma venni licenziato perché, diceva il proprietario, avevo un carattere ribelle e passavo il tempo a leggere libri e giornali. Era vero, verissimo, mi dedicavo spesso alla lettura, solo che lo facevo durante il tempo libero, e poi, se vogliamo dirla tutta, non fu lui a licenziarmi, ma mi licenziai io in quanto, in quattro mesi di lavoro, non mi aveva mai pagato.
Durante la mia permanenza a Potenza ebbi la fortuna di conoscere Giovanni Agoglia, un ex capitano dell'esercito napoleonico, mio paesano, il quale mi portò con sé a Salerno, assumendomi come domestico e assegnandomi un vitalizio per farmi studiare. Ho letto la Bibbia, i giornali e gli scritti di Giuseppe Mazzini.
A Salerno ho frequentato circoli filo mazziniani e associazioni repubblicane che mi procurarono i primi problemi con la legge, difatti fui arrestato con l’accusa di sovversione, perché distribuivo manifesti che erano invettive contro le monarchie e il papato, inneggiando alla Repubblica, a Mazzini e Garibaldi, anche se pure lui, Garibaldi, in seguito è diventato un simpatizzante della monarchia. Avevo in tasca una copia de Il popolo d'Italia, giornale mazziniano, che mi fu sequestrata, e fui trattenuto in carcere per tre mesi, perché qualcuno aveva testimoniato che stavo imparando il francese per progettare un attentato a Napleone III.
Uscito di prigione rimasi brevemente presso la famiglia a Salvia e, tornato a Salerno, ho lavorato come cuoco presso la fabbrica di tessuti degli Svizzeri. Poi decisi di aprire un locale tutto mio, “La Trattoria del Popolo”, in cui spesso si mangiava senza pagare; ma ben presto, il ristorante venne chiuso, perché, dicevano, era luogo d’incontro di anarchici. Così, nel giugno 1878 mi trasferii a Napoli, dove ho vissuto alla giornata cambiando diversi datori di lavoro.
Qui continuai la mia attività politica, partecipando alle diverse proteste di matrice internazionalista, represse dalle autorità, quando quando il re Umberto I, alla morte del padre, Vittorio Emanuele II di Savoia,( Roma, 9 gennaio 1878), preparò un viaggio nelle maggiori città italiane per potersi mostrare al popolo. Ero presente quando fu interrotto dall'ispettore di pubblica sicurezza un comizio tenuto dall'operaia femminista Annita Lanzara e dai tipografi internazionalisti Luigi Felicò e Taddeo Ricciardi e quando vennero arrestati Pietro Cesare Ceccarelli, Francesco Saverio Merlino, Francesco Gastaldi, Giovanni Maggi e Saverio Salzano, mentre distribuivano volantini rivoluzionari.
Animato dalle mie idee repubblicane, progettai di attentare al re, e quale occasione migliore di quella della sua visita a Napoli, tra la folla festante? Ma come fare, non avevo mezzi, mi serviva un’arma, dove avrei potuto trovarla? Alcuni giorni prima di quel 17 novembre 1878, riuscii a barattare la mia unica giacca con un coltello ben affilato, l’avvolsi in un panno rosso sul quale avevo scritto: «Morte al Re, viva la Repubblica Universale, viva Orsini» e aspettai la visita del re.
Quando il corteo giunse all'altezza del "Largo della Carriera Grande" confuso tra il pubblico festante, fra tante persone, soprattutto donne, che sgomitavano per dirigersi verso i regnanti per porgere suppliche, c’ero anch’io, in attesa del momento opportuno per avvicinarmi alla carrozza del sovrano, che incedeva lentamente nella piazza. Avevo ben stretto, sotto il braccio, il panno in cui era avvolto il coltello. Ero nervoso, guardingo, mi voltavo continuamente a destra e a sinistra: avevo la sensazione che tutti conoscessero il motivo della mia presenza in quel posto e non aspettassero altro che un segnale per saltarmi addosso, disarmarmi e massacrarmi. Cominciai a sudare e ad avere paura, temendo di non essere in grado di portare a termine il mio compito, ma, nonostante il sudore, riuscii a mantenere la calma. Con la manica della camicia mi asciugai il sudore che, copioso, mi solcava la fronte e le gote e quando valutai che fosse il momento propizio, sbucai all'improvviso dalla folla, dispensando spinte e strattoni agli astanti, raggiunsi il corteo, salii sul predellino della carrozza reale a bordo della quale viaggiava anche il Presidente del Consiglio Cairoli, scoprii il coltello, che tenevo avvolto nel drappo rosso, e mi lanciai contro il re urlando: «Viva Orsini! Viva la Repubblica Universale!»
Approfittando degli attimi di sorpresa che colsero le guardie reali, riuscii a lanciare un fendente che colpì ad un braccio il sovrano che tentava di difendersi, poi la regina mi gettò in faccia un mazzo di fiori che aveva in grembo urlando:«Cairoli, salvi il re». Il Presidente del Consiglio reagì afferrandomi per i capelli ma riuscii a ferirlo alla coscia destra, accorsero subito i corazzieri, il loro capitano mi colpì con una sciabolata alla testa, e fui subito tratto in arresto.
Sanguinante per le ferite, non fui accompagnato in ospedale per essere medicato, ma subii altre sevizie; mi portarono in una grande stanza, mi picchiarono, mi sequestrarono i documenti e tutto ciò che avevo con me, poi mi interrogarono; vollero sapere se avevo agito da solo, io dissi di sì, di aver escogitato l'attentato due giorni prima e negai di appartenere ad alcuna organizzazione politica.
Mi cacciarono in una stanza buia e umida e lì rimasi per due giorni, poi fui trasferito nel carcere di San Francesco e rinchiuso in una cella di isolamento dove attesi il giorno del processo
Intanto fuori ci furono altre manifestazioni contro la monarchia, e cortei di protesta solidali nei confronti del Re, ci furono disordini, feriti e anche alcuni morti.
Il poeta Giovanni Pascoli, allora simpatizzante per le idee socialiste, in una riunione a Bologna, lesse una sua ode composta in mio onore: Ode a Passannante. Subito dopo la lettura, però, la distrusse e di essa oggi si conosce solo il contenuto dei versi conclusivi: «Colla berretta d'un cuoco, faremo una bandiera». Pascoli, in seguito, fu arrestato per aver manifestato a favore degli anarchici che erano stati a loro volta tratti in arresto per i disordini generati dalla mia condanna e scontò tre mesi di carcere. Durante il loro processo, il poeta urlò: «Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!».
Il processo nei miei confronti si tenne dopo circa quattro mesi, il 6 e 7 marzo del 1879 e si concluse con la condanna a morte.
Gli psichiatri, che mi visitarono su incarico dei giudici istruttori, esclusero che fossi pazzo. Solo Cesare Lombroso, in disaccordo con tale diagnosi, mi definì "mattoide" deducendo tale convinzione anche dalla conformazione del mio cranio e dopo la mia morte mi decapitarono per condurre degli studi sulla conformazione del mio cervello.
Il giorno successivo al processo, sotto nutrita scorta di carabinieri e guardie di pubblica sicurezza, fui imbarcato su una piccola nave della Marina militare, il "Laguna", che salpò con destinazione Isola d'Elba. Quando vi giunsi, il sottoprefetto di Portoferraio salì a bordo per prendermi in consegna, mentre me ne stavo seduto nel fondo del piroscafo, con le mani legate. Compiuta la consegna, fui tratto nella coperta della nave, e, aiutato dai carabinieri che mi scortavano, scesi in una barca che mi condusse a terra. Arrivati al bagno il sottoprefetto mi consegnò alla direzione.
Mi domandarono le generalità: “come ti chiami?, cognome e nome, paternità, maternità, luogo e data di nascita”. –“Mi chiamo Giovanni Passannante,…-“ –“Ho detto Cognome e nome!” – “Sì, sì…, Passannante Giovanni, di Passannante Pasquale e Fiore Maria, nato a Salvia di Lucania il 19 febbraio 1849”- Piano, che devo scrivere: di Pas-san-nan-te Pa-squa-le e Fio-re Ma-ria, nato?” – Nato a Salvia di Lucania il 19 febbraio 1849”….19 feb-bra-io mil-le-otto-cen-to qua-ran-ta-no-ve.
Fornite le generalità tranquillamente, salutai e ringraziai i carabinieri e fui condotto nella cella della Torre della linguella che mi era stata destinata. Vestiti gli abiti del galeotto, mi fu posta una catena di 18 chilogrammi assicurata con un anello al muro che mi consentiva di fare solo due o tre passi, altre maglie mi cinsero i fianchi e rimasi in completo isolamento, non potevo ricevere visite né lettere.
Impallidii, per la prima volta piansi e svenni, ma, prima di svenire, trovai la forza di esclamare:"Napoli mia, cara Napoli è per il bene che ti ho voluto che mi si mettono le catene". Poi mi ripresi, rifiutai il cibo, mi accovacciai in un angolo, con la testa tra le ginocchia e mi chiusi nel mio silenzio.
In quella cella piccolissima, umida, buia, senza servizi igienici, posta sotto il livello del mare, con il pavimento in terra battuta, che ne permetteva l'infiltrazione di acqua marina, infestata da ratti di ogni dimensione, provocando nell'ambiente condizioni di insalubrità, rimasi per alcuni giorni, in attesa dell’esecuzione della sentenza di morte. Attendevo quel momento con rassegnazione, non mi rendevo conto del tempo che passava, perché ne avevo persa la cognizione. Non so per quanto tempo rimasi in quella situazione.
Poi un giorno mi comunicarono che la condanna a morte era stata commutata dal “Re buono”, in quella dei lavori forzati a vita, mentre mia madre e i miei fratelli furono rinchiusi nel manicomio di Aversa in quanto miei consanguinei.
Con il passare degli anni tale detenzione influì sulla mia salute, sia mentale sia fisica. Mi ammalai di scorbuto, fui colpito dalla taenia, mi caddero tutti i capelli, persi i peli del corpo, la pelle si scolorì, le palpebre si rovesciarono sugli occhi, le guance si vuotarono e si gonfiarono. Avevo solo la forza di gridare per i dolori che pervadevano tutte le mie membra. Dopo due anni, i carcerieri mi fecero salire al di sopra del livello del mare, ma le condizioni di vita rimasero immutate, anzi, se possibile, si aggravarono.
Sembrava che nessuno fosse a conoscenza delle mie condizioni, ma lo sapevano tutti, anche il re, e molti ritennero che il sovrano mi lasciò impazzire in galera, poiché «gli attentatori non venivano uccisi, anzi bisognava prolungare la loro vita, perché sentissero meglio la morte».
Intanto all’esterno molti manifestarono contro la mia inumana detenzione. Vennero a rendersi conto delle mie condizioni, senza che io lo sapessi, anche alcuni parlamentari, Io lo seppi dopo morto. Mi osservarono dallo spioncino della cella, ero ridotto pelle e ossa, gonfio, scolorito come la cera, costretto immobile sopra un lurido giaciglio, emettevo rantoli e cercavo di sollevare con le mani quella grossa catena che non potevo più oltre sopportare, a causa della debolezza estrema dei miei reni. Me disgraziato!!! Non parlavo più, emettevo di tanto in tanto grida laceranti che, se i marinai dell'isola avessero udito, sarebbero rimasti inorriditi. Ma non mi sono mai pentito di quello che ho fatto, anzi di quello che avrei voluto fare e che non sono riuscito a fare.
A causa del trattamento disumano patito, cominciai a dare segni di squilibrio mentale, per cui fui sottoposto a perizia psichiatrica da alcuni professori che mi dichiararono “non sano di mente” e quindi, alla fine di maggio 1889, fui trasferito presso il manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, dove morii sessantunenne il 14 febbraio 1910 e comunque dopo aver saputo che qualcun altro, Gaetano Bresci, qualche anno prima, il 29 luglio 1900, aveva assassinato a Monza Umberto I, “il re buono”.
Pensavo di poter “riposare in pace”, come si augura ai morti, invece no, le mie "disgrazie" non finirono con la morte, continuarono, incredibilmente, anche dopo. Il mio corpo fu sottoposto ad autopsia e decapitato. Il mio cranio e il mio cervello furono studiati da un professore che doveva a tutti i costi dimostrare la mia pazzia, dovuta, secondo le sue teorie, alla conformazione del mio cranio. Ma io non ero pazzo, anzi avevo le idee ben chiare, solo che si discostavano da quelle dei monarchici; io ero un repubblicano convinto, solo che pensavo, erroneamente, di poter dare all’Italia una forma di democrazia repubblicana sopprimendo un re, invece poi ho visto che, ucciso un re, se ne è fatto un altro.
Fino a poco tempo fa, se volevate vedere il mio cervello e il mio cranio, assieme a due quaderni di appunti, studiati dal criminologo Cesare Lombroso, potevate visitarli nella sezione·”lo spirito della ragione", presso il Museo Criminologico del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma. Oggi non è più possibile, perché i miei resti, su iniziativa di un parlamentare, sono stati ricomposti e seppelliti nel cimitero di Savoia di Lucania.
Forse, per ammirarli, vi avrebbero chiesto anche di pagare un biglietto”.
Firmato: Giovanni Passannante.

Al termine i presenti, molto interessati alla tragica vicenda del Passannante, si sono complimentati ed hanno applaudito i due bravissimi relatori.
E' conservata agli atti la ripresa filmata della conferenza.
Fonti: Wikipedia, “Lo Scoglio”
G.D.F. e D. M.






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