15° incontro - 13/02/2019
–ins. domenico maglione
“Balvano: la galleria della morte”
Il relatore di questa sera, M. Maglione, ha tenuto un
interessante incontro intrattenendo i soci su un argomento ai più sconosciuti:
Il disastro ferroviario della “Galleria delle Armi” di Balvano, sulla linea
Napoli-Potenza, in cui persero la vita circa seicento persone.
Inizialmente è stato proiettato un video-documento che
ricostruisce la vicenda sulla base delle testimonianze dei pochi superstiti,
intervallato da brevi interruzioni durante le quali il relatore approfondiva ed
esplicitava i contenuti del video.
la storia: Siamo in pieno inverno del 1944; nel luglio dell’anno precedente
le prime forze militari alleate sbarcano sul suolo siciliano. Durante la loro
avanzata incontrano i segni dell’aggressiva e spesso vendicativa ritirata
nazista: rovine ovunque e una popolazione ridotta alla miseria. Gli italiani
hanno subito numerose violenze, soffrono la fame e fanno ressa per ottenere
un pugno di farina, i forni sono spesso presi d’assalto e a volte non bastano i
soldati a respingere quelle folle. L’Italia è divisa in due tronconi: Vittorio
Emanuele III e Pietro Badoglio al sud liberato dagli alleati, e, al
centro-nord, la “Repubblica Sociale Italiana” di Benito Mussolini. La popolazione
italiana, i meridionali, come tutti gli altri, erano trattati come il nemico
ancora combattente dagli alleati, e come traditori dai tedeschi, quindi da
combattere.
Alla popolazione del sud
Italia, per potersi sostentare non rimane che un unico mezzo: il baratto. A
Napoli ed in Campania in generale i generi alimentari scarseggiavano e l’unica
possibilità di procurarsi del cibo era data dal baratto: scambiare alcuni oggetti
presenti in casa con generi alimentari posseduti dalle popolazioni a sud di
Napoli, in Basilicata o in Calabria. Con il baratto si poteva portare a casa
qualcosa da mettere sotto i denti e far sopravvivere i propri figli. Da Napoli,
una volta a settimana, partiva un treno passeggeri con destinazione Potenza-Taranto
che era letteralmente preso d’assalto dai numerosissimi viaggiatori diretti in
Basilicata in cerca di cibo. Moltissime persone rimanevano a terra, per cui,
spesso, si risolvevano a saltare abusivamente sui treni merci. E così avvenne
anche quel pomeriggio del due marzo 1944.
Il “treno merci speciale 8017” parte da Napoli con 23 carri
stracarichi di persone e ad ogni stazione si susseguivano gli assalti a cui
partecipavano anche madri di famiglie con bambini, perché quello era un treno
letteralmente di disperati.
Alla stazione di Salerno, dove la rete ferroviaria non è più
elettrificata, si ricorre alla trazione a vapore, con due locomotive, la 480 e la
476. Quest’ultima avrebbe
dovuto essere posizionata in coda al treno, perché, dopo il tratto pianeggiante
verso Eboli, il treno avrebbe dovuto affrontare un tratto di montagna assai
ripido e ricco di molte gallerie.
A Battipaglia, dove al
convoglio vengono aggiunte altri 24 carri merci, per un totale di 47, ci fu l’intervento della polizia militare
alleata, molto violento, a base di colpi di sfollagente e anche di colpi di
mitra sparati in aria con l’intento di far scendere dal treno alcuni
passeggeri, che scesero da un lato, per risalire dall’altro.
Alle 19:00, il treno 8017 partì dalla
stazione di Battipaglia, in direzione di Potenza.
Tra i passeggeri non vi erano solo
contrabbandieri, anzi, ci fu persino qualcuno che pagò regolarmente il
biglietto, c’erano anche i commercianti regolari, studenti, insegnanti medici,
come un docente dell’università di Bari che insegnava patologia chirurgica e
propedeutica clinica e che non aveva abbandonato il servizio all’ospedale San
Carlo di Potenza e al Sant’Anna di Eboli, con una novantina dei suoi studenti
campani. E i suoi ragazzi erano con lui quella notte perché stavano tornando
insieme a Bari per riprendere le lezioni. Alla stazione di Eboli ci
fu il solito tentativo di far scendere i passeggeri, ma per i pochi che
scendevano, moltissimi salivano. Alle 19,15 il treno riparte con il suo carico
di oltre settecento persone. Iniziava il tratto più impegnativo, in
salita, con molte gallerie tra le gole delle prime montagne della Lucania. Il
treno sbuffava, arrancava, svogliato e lento e raggiungeva Balvano alle 00,12,
mentre la gente, ignara di quanto stava per accadere e spossata da quel viaggio
iniziato ormai da troppe ore, aveva ceduto alla stanchezza e al sonno e si era
addormenta, ammucchiata una sull’altra. Alle 00,50, dopo una sosta di 38 minuti
il treno riparte. Stazione dopo stazione
il treno merci 8017, ormai stracarico di viaggiatori clandestini, avanza verso
Potenza. La notte è cupa umida, pioviggina e di tanto in tanto cade anche
nevischio. Dopo qualche minuto,
si presentò alla Galleria delle Armi, letteralmente invasa di vapore ristagnante per il precedente passaggio di un’altra locomotiva a vapore. Il
freddo e l’umidità avevano impregnato tutto, i binari erano scivolosi e la
presa delle locomotive era insufficiente per cui si bloccarono. I
macchinisti, quando si resero conto
delle difficoltà di salita del treno, per far muovere i vagoni, tentarono di dare
più energia e più vapore alle due locomotive cercando di portare la
pressione alla massima potenza.
Il personale della
seconda macchina, si rese conto delle difficoltà e capì che l’unica soluzione
era quella di portare il treno fuori della galleria facendolo scivolare a
ritroso e, prima che il monossido di
carbonio lo stordisse, cercò di fare marcia indietro. In questo modo, nel
momento critico, i due macchinisti, nell’impossibilità di comunicare, agirono
in modo opposto, il primo per cercare di avanzare e il secondo per cercare di
tornare indietro.
In coda, il frenatore, quando
vide scivolare il treno azionò il freno e scese. Entrò in galleria, fece
qualche passo verso la testa del treno, ma intuì cosa stesse succedendo e corse
verso la stazione di Balvano per chiedere aiuto.
Quando finalmente
raggiunse la stazione, in condizioni pietose, allo stremo delle forze, lacero,
infreddolito, atterrito, cadde in ginocchio ansimante e disse solamente: “là sono tutti morti”.
Il capostazione di
Balvano fece sganciare la locomotiva del treno 8025, giunto in stazione e in
attesa del “via libera”, e dispose una ricognizione alla galleria, quindi partì
con la sola locomotiva dell’8025.
All’imbocco della
Galleria delle Armi si intravide il fanale di coda del treno disperso; il
personale a bordo della locomotiva 8025 fermò il mezzo, scese, entrò nel tunnel
e si rese conto del disastro.
In questa tragedia
perdono la vita oltre cinquecento persone. Furono espletate delle indagini e
fatte inchieste non tanto per far luce sull’accaduto, per stabilirne le cause
ed accertare eventuali responsabilità, ma, soprattutto, per dare un colpo di
spugna ed insabbiare il tutto. All’epoca c’erano problemi più impellenti,
figurarsi se poteva interessare la morte di persone comuni, siano state esse
500, 600 o 1000.
Il
verbale della stessa Commissione, nel SOMMARIO, in merito al numero dei morti
dice testualmente: ”I morti sono 517.
Tutto il personale ferroviario addetto al treno è deceduto, all'infuori di un
fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo”.
Per quanto riguarda la
causa primaria che provocò la tragedia, anche i risultati dell’inchiesta,
svolta dalla Commissione Alleata, giunsero alle stesse conclusioni: “pessima
qualità di carbone fornito dagli Alleati”.
La necessità più
impellente era quella di chiudere al più presto la vicenda, per cui il
Procuratore del re di Potenza concluse che l’incidente era avvenuto per la
cattiva qualità del carbone; il carbone era difficilmente perseguibile e questo
fece comodo a tutti.
Per molti anni non si è
più parlato di questa tragedia, dei morti nella “Galleria delle Armi”, fino a
quando una donna, Luisa Cozzolino, vedova Palombo, non iniziò un'azione per
risarcimento danni, citando le Ferrovie dello Stato. Ad essa si aggiunsero le
citazioni di altre 300 famiglie.
Le Ferrovie dello Stato
sostennero che, dato l’allora vigente regime di occupazione militare da parte
del governo alleato, e dato il fatto che agli occupanti dell’8017 non poteva
essere riconosciuta la qualifica di viaggiatori regolari, in quanto occupanti
di un treno non destinato al trasporto di passeggeri, nessuna responsabilità
poteva essere addebitata all'amministrazione.
Per spegnere sul nascere
una vertenza che avrebbe potuto trascinarsi per anni, intervenne il Ministero del Tesoro che sancì l'emissione di
un risarcimento alle famiglie in base alla legge speciale (N. 10, del 9 gennaio
1951) che prevede “un'indennità per danni
immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi,
delle Forze armate alleate", danni provocati dal conflitto, come se si
trattasse di vittime di guerra.
£. 320.000 per ogni
vittima, 320.000 lire per ogni vita spezzata, 320.000 lire erogate dopo oltre
15 anni e solo ad alcuni.
Si chiude così un a
vicenda che, ancora oggi, presenta vaste zone di ombra. Ma la cosa più
avvilente e mortificante, a distanza di 75 anni, è che essa è pressoché
sconosciuta alla moltitudine delle persone e anche agli organi di stampa. Su di
essa, nel tempo, hanno taciuto intellettuali, sindaci, presidenti regionali,
primi ministri e presidenti della repubblica. Tranne pochi casi circoscritti
nella zona, a ricordare la tragedia, per tutta la penisola non ci sono piazze,
vie, lapidi, monumenti, ricorrenze…, niente.
Quei volti segnati dagli
stenti, dalle sofferenze, dalla fame, quei morti
accatastati sulla banchina della stazione di Balvano e poi gettati nelle fosse,
senza un funerale, senza una preghiera, senza un segno di croce, non servivano
a nessuno, perché non avevano appartenenza, non avevano colore politico, solo l’insignificante particolare di essere “Italiani”.
D.M.