domenica 3 giugno 2018

11° incontro - 10/01/2018 – prof. francesco s. lioi
“Un grido lungo duecento anni: terra ai contadini” 1a parte
Il Prof. Lioi ha tenuto una interessante conferenza sulle vicissitudini che hanno caratterizzato oltre due secoli di lotte da parte dei contadini finalizzate all’ottenimento dei terreni che, dopo la feudalità, dovevano essere assegnati ai contadini. Ma, come vedremo nel corso della relazione, le cose non andarono proprio come sperato.
Così inizia la relazione del prof. Lioi.:
“Terra ai contadini, un grido che viene dal 1810, da molto lontano nel tempo, da quando le leggi murattiane sancirono l’eversione della feudalità e la quotizzazione delle terre demaniali. Fu dopo queste leggi che i contadini innalzarono questo grido verso il cielo.
Mezzo secolo dopo fu la seconda volta che il grido si innalzò verso il cielo, dopo l’Unità d’Italia nel 1860, quando le richieste dei contadini meridionali furono inattese dal nuovo stato, il quale ebbe l’appoggio dei galantuomini a condizione che non fosse mutato lo status quo. La rivolta dei contadini contro questo stato di cose fu una delle cause del brigantaggio, specie dalle nostre parti: il brigantaggio è soprattutto una ribellione alla miseria, al latifondo e alle terre incolte tenute dai galantuomini, gestori di un nuovo feudalesimo più deleterio del primo, quello che le leggi murattiane tentarono di sopprimere. Tutta la seconda metà del secolo XIX è stata segnata dal grido terra ai contadini, grido sempre inatteso dalla classe dirigente. Il nuovo parlamento condusse un’inchiesta sulle condizioni del contadino lucano, ma questa venne affidata ad Ascanio Branca, che pure era lucano, ma grosso proprietario terriero. Ebbene, Ascanio Branca si preoccupò soprattutto di non ledere i diritti dei suoi elettori, che erano soltanto i ricchi proprietari di terra interessati a non provocare interventi che avrebbero modificato le strutture socio-economiche della Basilicata di fine secolo.
La terza volta fu nel primo dopoguerra, quello della Grande Guerra del 1915-1918. Gli anni a cavallo del 1920 si connotano ancora una volta col grido terra ai contadini, ma il regime fascista, al potere dal 1922, eludendo il grido del popolo, fu dalla parte degli agrari, i quali continuarono a spadroneggiare negando ancora una volta la terra ai contadini ed aprendo loro la via dell’emigrazione. I contadini hanno perso la impari guerra e hanno preso la via dell’emigrazione verso le Americhe, verso il Nord Europa, verso il Nord Italia.
Arriviamo così al quarto grido: terra ai contadini, quello del secondo dopo guerra, quello della Seconda Guerra mondiale, quello che molti di noi hanno vissuto e che l’hanno visto scritto anche sui muri con la vernice nera. Il terzo e quarto grido Terra ai contadini proveniva da coloro che avevano dato parte della loro vita alla patria combattendo nelle trincee, nei deserti dell’Africa o nelle steppe ghiacciate della Russia: anche il grido di costoro fu inascoltato e la terra rimase dei soliti galantuomini  che continuarono la loro vita parassitaria.
Ad ogni tentativo da parte del potere costituito, sia esso monarchico che repubblicano, i ricchi feudatari prima e i ricchi galantuomini dopo hanno sempre ritenuto che essi erano al di fuori e al di sopra di ogni legge. La classe dirigente, quale essi dicevano di essere, secondo loro doveva sempre mantenere le antiche e consolidate posizioni acquisite nel tempo ed impedire che altri potessero essere alla pari con loro.
La società lucana fino alla seconda metà del XX secolo è rimasta immutata nelle sue strutture e nella sua economia, è stata priva di una borghesia imprenditoriale e di una classe dirigente che si adoperasse per un miglioramento. L’economia agraria ha attraversato un lungo periodo di stasi per il disinteresse dei grossi padroni.  Si sperava che l’eversione della feudalità e la soppressione degli enti ecclesiastici cambiassero la situazione, ma tutto è andato a vantaggio degli ex feudatari e della ricca borghesia, i terreni venduti dallo stato ancora una volta sono diventati di loro proprietà.
Lo stato, nel meridione il regno di Napoli, con l’eversione della feudalità, acquisì le terre degli ex feudatari, che poste in vendita, furono facilmente comperate dagli antichi proprietari e dalla ricca borghesia, o prese da costoro in enfiteusi. Ed ecco il grido della richiesta di terra da parte dei contadini che si prolunga nel tempo. E se costoro dal grido passavano ai fatti, occupando direttamente le terre demaniali, intervenivano le autorità costituite, che restituendo la terra agli usurpatori, dicevano di fare giustizia e che la terra altrui non andava toccata.
I terreni demaniali venivano concessi in enfiteusi ai soliti baroni o gentiluomini, i quali. nel  tempo, li alienavano e diventavano i veri proprietari, impedendo ai contadini i più elementari diritti di sussistenza. Quello che succedeva nel Decennio Francese continua sotto i Borboni: anche l’enfiteusi della terra degli enti religiosi soppressi è sempre appannaggio di coloro che già sono proprietari di grossi latifondi.
In Basilicata, ove regnava il latifondo, sia esso di media o grande estensione, dopo le prime quotizzazioni demaniali le condizioni dei contadini sono peggiorate, non è stato adottato alcun provvedimento per affrontare le conseguenze derivate dall’esercizio degli usi civici e per mantenere i quotisti assegnatari nelle condizioni di coltivare le loro terre assegnate, si sono consentiti gli abusi dei ricchi galantuomini, i quali ricorrendo ad ogni mezzo continuano con prepotenza ad accrescere i loro beni fondiari.
Tutto questo si ripete dopo il 1864, con l’Unità d’Italia e la creazione del Regno d’Italia. Incuranti delle promesse fatte al popolo che aveva chiesto al nuovo sovrano la spartizione delle terre che i comuni avevano incamerato dopo il 1864 per la soppressione degli ordini religiosi e l’incameramento dei beni di questi da parte dei comuni, gli agrari si schierarono dalla parte del nuovo stato non solo per conservare i loro latifondi, ma anche per accrescerli usurpando le quote demaniali che sarebbero dovute andare ai contadini. Contro queste appropriazioni indebite le amministrazioni comunali iniziano lunghe e costose vertenze contro gli usurpatori dei terreni: il possesso rimane sempre ai più forti, in questo caso gli agrari, sempre protetti da una legislazione a loro favore. Scompaiono così gli usi civici nei terreni migliori, dalle nostre parti dai terreni migliori che si trovano nelle pianure che costeggiano il fiume Bradano. Ai contadini vengono assegnati i terreni più scarsi e meno produttivi, per il pascolo ed il legnatico.  Cosi i contadini e la povera gente rimangono sempre fuori; si ribellano, si rivoltano non contro lo stato, ma contro i grandi agrari, contro i latifondisti, dai quali si ritengono affamati e sfruttati. Nasce così il brigantaggio, e si sviluppa un potente urto tra la classe possidente e la classe  proletaria, ma la distribuzione della terra ai contadini non ci sarà mai La legislazione borbonica prima e italiana dopo per tutto l’800 si informa allo spirito delle leggi eversive promulgate a Napoli durante il Decennio Francese. Pur non avendo mai accantonato il Parlamento del nuovo Regno Italiano il problema dei contadini e delle loro condizioni,  nulla è cambiato. Nel censimento del 1881 il 65.5% dei lavoratori della terra non è proprietaria del fondo che coltiva ed è costretto a legame di subordinazione nei confronti dei proprietari terrieri e dei nobili del luogo.
Il nuovo Stato Italiano, per esso il Parlamento, commissionava studi ed inchieste sullo stato dell’agricoltura. Studiosi e ricercatori erano i parlamentari, i quali erano anche grandi agricoltori latifondisti che a parole erano riformisti, nei fatti concreti conservatori. Infatti indagarono, studiarono, sperimentarono, relazionarono, ma la proprietà era sempre di pochi, di quella borghesia agraria alla quale interessava la proprietà della terra non le condizioni dei contadini”.
Sintesi a cura di D.M.