venerdì 29 aprile 2022

Religione e culto dei defunti nella cultura classica

10° incontro -27 aprile 2022 -  prof. Rocco Basilio - Religione e culto dei defunti nella cultura classica


  IL CULTO DELLE DIVINITÀ E IL DESTINO DELL’UOMO DOPO LA MORTE NELLA CULTURA   GRECO-LATINA


L’argomento di questa sera sembrerebbe a prima vista un po’ lugubre, però ci offre l’occasione di conoscere le pratiche religiose osservate dalle antiche popolazioni greche e latine per circa 1200 anni.

La trattazione è divisa in due parti: la prima riguarderà l’origine delle divinità e il loro culto secondo Esiodo, vissuto circa 800/700 anni a.C.; la seconda, la destinazione dell’uomo dopo la morte secondo Omero, VIII sec. A.C, Platone, Virgilio ed altri autori che citerò in seguito.

L’argomento, anche se poco allegro, ci offre l’opportunità di scoprire che certe paure dell’Aldilà degli antichi erano uguali a quelle che abbiamo noi oggi. Scopriremo come loro si siano sforzati di allontanare, mitigare o rendere meno angosciante l’idea che oltre l’esistenza su questa terra non ci fosse più nulla.

La prima constatazione è che gli antichi popoli pagani non avevano testi scritti, suggeriti agli uomini da Profeti o da Mosè, come era avvenuto con i testi sacri tramandati dalla tradizione ebraico-cristiana: l’antico Testamento, la Bibbia, i Vangeli per i cristiani e il Corano per i Maomettani.

              ORIGINE  DEL MONDO

Gli autori antichi, come il già citato Esiodo, si sono dovuti inventare l’origine della terra, delle divinità ed anche la destinazione dei defunti dopo la morte. 

Secondo il racconto biblico Dio creò il mondo dal nulla in sei giorni.

Esiodo nella sua Teogonia afferma che “in principio vi fu il Caos”.

Per noi caos significa disordine, confusione; per Esiodo il termine caos voleva dire spazio aperto, profondo e il mondo non è stato creato, ma si è formato per un processo evolutivo, per una sua forza autonoma. Dal Caos poi sono nati EREBO (TENEBRA) e NOTTE. Questi due elementi unendosi hanno dato vita ai loro contrari: ETERE, la parte più alta e luminosa dello spazio, e GIORNO.

Un secondo elemento primigenio per Esiodo è la TERRA, che fa nascere, senza unirsi con altri elementi, il CIELO stellato, i MONTI e il MARE. L’ultimo elemento primigenio è EROS che non deriva da nessuno, ma è stato inteso come una forza che agisce per favorire gli accoppiamenti e, quindi, la trasmissione della vita.

Tralascio tutto il complesso di altre discendenze che riguardano la nascita delle numerose divinità. La divinità che inizialmente regge il mondo è URANO; dalla sua unione con REA nascono diversi figli che lottano tra di loro fino a quando ZEUS li elimina tutti e viene riconosciuto Re di tutti gli dei Superi, cioè le divinità che abitano sul monte Olimpo in Grecia dove sorge una grandiosa e lussuosa reggia. In quella dimora i vari dei dormono, mangiano e osservano tutto quello che succede sulla terra. Il re degli dei, Zeus, deve stare sempre vigile per tenere a bada le iniziative dei suoi nemici. I più temibili erano i Titani, creature dal fisico possente e dalla forza enorme che la usarono, sempre secondo quanto afferma Esiodo, per mettere uno sopra l’altro i monti della Grecia per raggiungere l’Olimpo dove regnava ZEUS. I Titani furono sconfitti e relegati per sempre nel TARTARO, un luogo profondissimo al centro della terra; tanto profondo che distava dalla superficie della terra quanto essa distava dal cielo. Per avere un’idea di tale profondità, se vi si faceva cadere un’incudine di bronzo, questa avrebbe impiegato ben nove giorni per raggiungere il fondo del Tartaro.

Gli antichi Greci erano politeisti, cioè adoravano molti dèi che erano tutti immortali, ma erano soggetti alle passioni e ai sentimenti come gli uomini, intervenivano nelle vicende umane in base alle proprie simpatie e antipatie. Erano permalosi e punivano le città che non gli tributavano i dovuti onori. Non mancavano scene di gelosia come avvenne durante il banchetto per lo sposalizio del re Peleo con la ninfa Teti, futuri genitori dell’eroe Achille. In quella occasione furono invitati tutti gli dei eccetto ERIS, dea della discordia, la quale per vendicarsi lasciò cadere sulla mensa, attorno alla quale sedevano tutti le altre divinità, una mela d’oro con la scritta “alla più bella”. Scoppiò una lite tra le dee Giunone, Atena e Venere perché ciascuna si credeva la più bella. Poiché nessuna delle tre cedeva si rivolsero a Giove il quale  nominò come giudice Paride, uno dei 50 figli maschi del Re di Troia, Priamo. Le dee in lizza gli promisero Giunone il potere, Atena la sapienza e Venere la donna più bella allora esistente, cioè Elena la moglie di Menelao, re di Sparta. La promessa si avverò e fu la causa che scatenò la guerra di Troia tra Greci e Troiani. Inoltre i vari dei amavano e tradivano con molta facilità e disinvoltura le loro mogli. Non parliamo, poi, di Zeus che praticava l’infedeltà in maniera spudorata. Si nutrivano con cibi raffinati come  il nettare, simile al miele e la loro bevanda era l’ambrosia. Anche loro, però, erano soggetti al FATO, il destino che li guidava e contro il quale erano impotenti. Il numero degli dèi era ampio ma i principali erano una decina. Poi c’erano altre divinità minori come le Ninfe e le nove Muse che nella cultura greco-latina erano le protettrici e le ispiratrici della poesia e dell’arte in genere.

Ricapitolando: il capostipite degli dèi è CRONO; da lui discendono tre figli divini: ZEUS, NETTUNO, PLUTONE. Questi tre per sorteggio si dividono le zone sulle quali regnare: a Zeus toccò il cielo, a Nettuno il mare e a Plutone gli Inferi.

L’iconografia ci ha tramandato anche le immagini di questi tre dèi:

ZEUS ha la barba e regge nelle mani il tuono e i fulmini; NETTUNO con il tridente, un forcone con tre punte e PLUTONE con la faccia accigliata perché non era contento della parte che gli era toccata nel sorteggio. Infatti egli regnava nell’Ade senza immischiarsi nelle  vicende dei viventi che non gli tributavano nessun culto. E non aveva rapporti neanche con le altre divinità. Solo una volta ebbe bisogno del consenso del fratello Zeus e fu quando per prendere moglie dovette rapire Persefone, figlia di Demetra, sorella di Zeus.

Zeus diede il suo assenso a queste condizioni: Persefone doveva vivere quattro mesi con lui nell’Ade e otto mesi con la madre Demetra sulla terra.

A proposito del rapimento di Persefone (Proserpina per i latini), il poeta latino Claudiano ( 370- 404 d.C. ) riferisce che il dio Plutone sbucò dal mare sopra un carro al quale erano aggiogati quattro mostruosi cavalli neri, dalle briglie intrise di sangue, dal respiro mortifero e dalla bava infetta che guastava il suolo sul quale cadeva. Anche i loro nomi incutevano paura:1) Orfneo = tenebroso; 2) Ctonio = infernale; 3) Nitteo = notturno; 4) Alastore = punitore.

Nella reggia infernale di Plutone circolavano tanti personaggi, ciascuno con un proprio compito. Il dio Ermes viveva nell’Olimpo, ma aveva l’obbligo di accompagnare le anime dei defunti nell’Oltretomba. Qui lo aspettava Caronte che con la sua barca trasportava le anime sulle acque dell’Acheronte/Stige che formava la palude infernale; vi era anche Cerbero, il cane con tre teste, che sorvegliava i defunti per non farli fuggire e per non far entrare i vivi. Per ammansirlo gli offrivano la loffa, una specie di focaccia al miele di cui era ghiotto.

Erano presenti anche tre giudici infernali molto severi e inflessibili come erano stati sulla terra quando erano vivi; Radamanto, re di Creta; suo fratello Minosse ed Eaco, re di Egina, isola distante da Atene una cinquantina di Km. Il loro ruolo di giudici variava a seconda degli autori che ne parlano. Per Platone Minosse fungeva da giudice supremo, Eaco giudicava gli Europei e Radamanto gli Asiatici e, secondo altri autori, i defunti che popolavano le Isole dei Beati.

Per infliggere le pene alle anime trovate colpevoli i giudici infernali si servivano di aiutanti molto spietati come le Erinni greche, le FURIE per i Romani. A queste si aggiungevano, secondo il filosofo greco Platone, altre figure con compiti di carcerieri e guardiani. In più c’era un demonio che cambiava velocemente forme passando dalle fattezze di una bella donna a quelle di un bue, di un mulo, di un cane. Tra tutti spiccava la figura inquietante di Eurinomo, un demonio che nell’Ade divorava le carni dei morti, lasciando loro solo le ossa.

Anche nell’Eneide di Virgilio compaiono mostri di ogni genere: arpie, chimere, centauri. Un altro poeta latino, Silio Italico, aggiunge avvoltoi e uccelli notturni: gufi, civette, barbagianni dalle penne grondanti sangue, che avevano i nidi sopra un enorme tasso. Con tutta questa bella compagnia il mondo dell’aldilà appare piuttosto lugubre. Stando a quanto ci tramanda Omero nell’Odissea, le anime dei defunti si trovavano in uno stato di grigia infelicità. Ecco come il poeta le descrive in due passi dell’ODISSEA (XI. 14-640 passim): su indicazione della maga Circe, Ulisse giunge nel regno dei Cimmeri, un popolo creato dalla fantasia omerica, immerso costantemente in un mare di nebbia nel quale si muovono le anime dei trapassati. Il viaggio fu voluto da Ulisse per incontrare la madre Anticlea e l’indovino Tiresia che gli avrebbe dato notizie della moglie Penelope, del figlio Telemaco e del padre Laerte. Ma prima di incontrare le anime dei trapassati doveva compiere un rito senza il quale non avrebbe incontrato nessuna anima. Doveva scavare una fossa quadrata con i lati lunghi un cubito, (Il cubito ebraico misurava cm 44,45, quello greco cm 52.5), nella quale versare un’offerta per i defunti: latte, miele, vino dolce e acqua, il tutto cosparso di farina. In più una supplica con la promessa che, se fosse tornato ad Itaca sano e salvo, avrebbe sacrificato una vacca sterile e al solo indovino Tiresia un montone nero, il più bello del suo gregge. Dopo questo preambolo sgozzò gli animali che aveva portato con sé raccogliendo il sangue nella fossa.

Accorsero le anime dei defunti, ma Ulisse con la spada sguainata non li fece avvicinare. Rivide alcuni compagni della guerra contro Troia, la madre Anticlea  e l’indovino Tiresia di Tebe, che così parlò a Ulisse: “ Divino figlio di Laerte… perché mai hai lasciato la luce del sole/ e sei giunto a vedere i morti e questo luogo senza gioia?/ Ma allontanati dalla fossa, riponi la spada affilata, perché beva il sangue e ti dica il vero”.

Tiresia predice ad Ulisse tutte le peripezie che dovrà affrontare prima di rientrare ad Itaca. Gli suggerisce di tenere lontano dalla fossa i defunti e lasciare che si accosti solo la madre. E così avvenne.

Appena la madre ebbe bevuto il sangue, riconobbe il figlio e così parlò: “Figlio mio, perché sei giunto nella tenebra oscura // mentre sei ancora in vita; vederla per i vivi è difficile”.

Dopo il lungo colloquio Ulisse tentò di abbracciarla.” Tre volte provai, il mio animo mi spinse ad abbracciarla, // tre volte mi volò via dalle mani simile ad un’ombra o a un sogno”. Il colloquio continua e la madre spiega al figlio cosa succede dopo la morte: ”Quando si muore i nervi non tengono più la carne e le ossa,/ ma l’onda violenta  del fuoco ardente le annienta…/ l’anima se ne vola via fluttuando come un sogno”.

Ulisse dopo aver incontrato altri personaggi vide l’ombra di Achille al quale ricordò le sue eroiche imprese di guerriero, ma l’ombra gli rispose: “Non ammorbidirmi la morte, illustre Odisseo, vorrei vivere e far da servo a uno qualsiasi…piuttosto che regnare sull’intero mondo delle ombre defunte”. Dopo di che se ne andò a grandi passi sul prato di asfodeli, fiore per i morti nella cultura greca.

Il racconto prosegue con la descrizione di altri defunti: Tantalo che cercava di bere senza riuscirvi, Sisifo che spingeva un enorme macigno verso la cima di un colle, che poi scivolava giù; Eracle  (Ercole per i latini) che continuava ad andare a caccia, come se fosse vivo, sui prati di asfodeli… mentre trascinava il cane Cerbero per condurlo fuori dall’Ade.

Ovviamente ci sono molti altri episodi che tralascio per delineare, sia pure brevemente, la tradizione religiosa nella cultura della Roma antica.

Anche presso i Romani la visione dell’aldilà viene descritta dal poeta Virgilio nel sesto libro dell’Eneide. Enea, personaggio dal quale deriva il titolo del libro, fuggito da Troia dopo che la città fu distrutta dai Greci, giunge con i suoi compagni a Cuma in Campania. Qui si reca dalla Sibilla, una sacerdotessa del dio Apollo, la quale aveva il dono di prevedere il futuro; costei doveva accompagnarlo nel regno dei morti per incontrare il defunto padre Anchise. La Sibilla abitava in una oscura e profonda grotta presso il lago Averno, ritenuto l’ingresso nel mondo infero. Una volta disceso nell’Ade, guidato dalla Sibilla, giunge nel punto in cui la strada si biforca: a destra si andava nei Campi Elisi, sede della anime buone, a sinistra nel Tartaro dove venivano puniti i malvagi.

L’ingresso del Tartaro era situato ai piedi di una grande rupe alla cui sinistra si ergevano tre cerchi di possenti mura intorno alle quali scorreva il fiume di fuoco Flegetonte. Vi era una enorme porta fatta con un materiale duro come il diamante e così robusta da non poter essere distrutta da nessuna forza, neanche dagli dei. La custodia della porta è affidata a Tisifone, una delle tre Furie (Aletto e Megera le altre due), coperta da un mantello insanguinato. Si udivano risuonare lamenti, feroci percosse, stridore di ferro e di catene trascinate. Enea spaventato chiede alla Sibilla da chi provengono i lamenti e lo stridore delle catene. Ella gli spiega come è composto questa parte degli Inferi. Qui il giudice dei defunti è Radamanto che ascolta la confessione dei crimini commessi e infligge le punizioni, mentre Tisifone li sferza minacciandoli con i serpenti che tiene nella mano sinistra. Appena si spalanca la porta, nel vestibolo siede un’Idra immensa con 50 bocche, mostro mitologico, una specie di drago in grado di uccidere una persona con il solo respiro o con il suo sangue.

In questa parte dell’Ade vengono puniti, come in Omero, tutti coloro che si erano ribellati agli dei. Ma non era questo il luogo che Enea doveva visitare, infatti la Sibilla lo guida verso la porta di destra che conduceva ai campi felici: una pianura coperta di erbe profumate e di alberi rigogliosi, illuminati da un sole e luce color porpora. In questa ampia pianura ci sono innumerevoli anime di trapassati che conducono un’esistenza facendo più o meno le stesse azioni che facevano sulla terra quando erano vivi. Sono le anime degli eroi, dei poeti, dei suonatori di cetra e dei devoti servitori delle divinità. Infine vede, in una valle verdissima, il padre Anchise che passava in rassegna la sua discendenza futura che avrebbe dato lustro alla storia di Roma. L’incontro tra padre e figlio è molto commovente ed anche Enea, come Ulisse, cerca per tre volte di abbracciare il padre senza riuscirci perché la sua figura era solo ombra.

Da questi episodi possiamo dedurre che anche per gli antichi latini e greci vi era una distinzione tra il corpo fatto di carne ed ossa ed una forma di anima che rappresentava la figura della persona defunta. Ma questi sono argomenti che riguardano la filosofia.

Tornando al culto delle divinità, senza entrare nei dettagli, anche la società romana adorava gli stessi dei del popolo greco, ovviamente con nomi latini, ed era molto ricca di altre divinità venerate sia dalle singole famiglie che dai collegi sacerdotali collegati direttamente al potere politico e militare. Nelle famiglie vi era il culto degli antenati, i Penati, e dei Lari protettori del focolare domestico. Queste divinità erano venerate con cerimonie private dai singoli capifamiglia. Nella sfera pubblica le cerimonie erano praticate invece da persone che facevano parte di collegi sacerdotali alle dipendenze di un capo, il Pontefice Massimo, che si serviva di altre persone incaricate di eseguire i sacrifici in onore degli dei, soprattutto di GIOVE e di MARTE, dio della guerra. Tra le divinità femminili c’era Giunone, moglie di Giove, Cerere protettrice delle colture agricole, Venere, dea dell’amore e tante altre. I Romani per quanto riguarda le divinità oltre a quelle della loro tradizione accoglievano anche altre divinità che erano venerate dai popoli che sottomettevano. A Roma fu costruito un tempio chiamato PANTEON nel quale erano inclusi tutti gli dei venerati anche dai popoli vinti. I Romani erano molto superstiziosi e i capi militari non intraprendevano nessuna campagna militare senza aver prima interpellato coloro che sapevano interpretare la volontà delle divinità. La figura profetica più consultata era La Sibilla che risiedeva in una grotta presso Cuma. A proposito dei responsi dati dalla Sibilla, poiché non sempre si avveravano, i richiedenti tornavano a lamentarsi con la Sibilla la quale si giustificava dicendo che il responso era stato interpretato in maniera errata. Infatti bastava spostare una virgola  ed il senso  cambiava  radicalmente: Ibis, redibis, non morieris in bello cioè “ andrai, tornerai, non morirai in guerra. Se si spostava la virgola la frase si leggeva: ibis ,redibis non,  morieris in bello che si traduce: andrai, non tornerai, morirai in guerra. Un altro oracolo molto famoso e consultato era quello del tempio di Apollo a Delfi in Grecia. In questo tempio la Pizia rilasciava i responsi ispirata dal dio Apollo. Sul frontone del tempio era incisa in greco antico la seguente frase del filosofo Socrate: gnothi seauton, conosci te stesso, che era un chiaro invito alla riflessione interiore. Ma vi erano anche altri gruppi di esperti come gli Aruspici che studiavano le viscere degli animali sacrificati e gli Auguri che interpretavano il volo degli uccelli. A proposito di questi esperti il più famoso oratore latino, Cicerone, con ironia diceva: “non so come non scoppiano a ridere quando si incontrano due  Aruspici “  sapendo che vendevano solo illusioni. Il sacrificio degli animali era strutturato con cerimonie ben precise, attuate da persone iscritte nei collegi sacerdotali, con l’intento di assicurarsi il favore degli dei ed eventualmente calmare la loro ira. Gli dei infatti gradivano molto il fumo delle viscere bruciate mentre gli addetti ai sacrifici banchettavano con le parti migliori degli animali sacrificati!

Per concludere, il culto delle divinità è stato praticato nell’impero romano fino all’anno 380 d.C., anno in cui l’imperatore Teodosio I° il Grande con l’Editto di Tessalonica, attuale Salonicco, esortava i popoli a lui sottomessi ad abbracciare la fede dell’apostolo Pietro. Con quell’editto il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’impero romano.

I TEMPLI GRECI

I GRECI nei territori in cui si insediarono hanno lasciato un patrimonio artistico veramente eccezionale, costituito da vasi dipinti, statue in bronzo come quelli di Riace e diversi templi dislocati in Sicilia, Campania e Metaponto. 

I templi costruiti nella Magna Grecia ricalcavano tutti il più grande  e meraviglioso tempio costruito ad Atene, il Partenone, iniziato nel 445 a.C. e terminato nel 438, dopo otto anni di lavoro. Era dedicato alla dea Atena (Minerva per i Romani) raffigurata da una statua in oro e avorio alta 12 metri. Il tempio aveva otto colonne

nel frontale e 18 ai lati, mentre i templi di Selinunte (Castelvetrano), della Valle dei templi di Agrigento   e di Paestum (Nettuno, Hera e Atena) avevano 6 colonne nel frontale e 15 ai lati, risalenti alla prima metà del V sec. A.C. 

Questi templi testimoniano ancora oggi la grandezza e la raffinatezza raggiunta dall’arte greca al servizio delle divinità pagane.


OPPIDO  LUCANO, 27 APRILE 2022 (Università  terza età) 

                                                                                                                                 Rocco A. Basilio

I Racconti di " L'Oppido 1"

 9° Incontro - 20/4/ 2022 - Antonio CALABRESE

 I racconti di  "L'Oppido Uno": Con la valigia di cartone

Negli anni '60 del secolo scorso nel nostro paese, come in tutti i paesi del Sud Italia, si verificò un forte flusso migratorio, prima verso le regioni ricche del Nord e poi, in misura più consistente, verso la Svizzera e la Germania. 

Partivano gli uomini, lasciando a casa le loro famiglie con le donne che avrebbero dovuto badare ai figli piccoli e, per quelli che ne erano in possesso, alla conduzione del piccolo podere di famiglia.,

Antonio ambienta il suo racconto in quegli anni e ci offre uno scorcio di vita vissuta da una famiglia, che è la famiglia della sorella Felicetta, dei suoi due figli Michele e Nunzia, ancora bambini, e di suo marito Rocco, emigrato in Germania. 

Siamo negli ultimi mesi dell'anno e vediamo Felicetta alle prese con la raccolta delle olive. Non trascura i suoi figli; Michele, più grandicello, pur essendo un bambino educato e giudizioso, ha pur sempre i suoi innocenti capricci  da soddisfare. 

Intanto si avvicina il Natale e Michele è intento a preparare il Presepe con i pochi pezzi che possiede e che rappresentano tutti i personaggi della Sacra Scena; manca però l'Angelo, che annunzia la nascita miracolosa, da porre sulla grotta. Glielo comprerà la mamma ?

Ma l'avvenimento che tiene in trepida attesa tutta la famiglia è il ritorno di Rocco per la breve vacanza natalizia. Ed egli giunge a casa pochi giorni prima di Natale, accolto dalla festa e dalla gioia di tutti.

I bambini però vogliono vedere subito cosa ha portato loro il papà e così la valigia viene aperta e vengono mostrati i regali, per grandi e piccini.

I pochi giorni di festa trascorrono veloci e pieni di impegni; il più pressante e faticoso è l'uccisione del maiale, che tiene occupati tutti i familiari ed i vicini di casa. I bambini però vengono allontanati, non devono assistere al cruento spettacolo!

La ripartenza di Rocco per la Germania arriva presto, occorre preparare di nuovo "la valigia di cartone"; chi parte e chi rimane deve darsi coraggio per affrontare di nuovo i lunghi mesi della lontananza.

Il bel racconto di Antonio viene allegato a questa brevissima sintesi e potrà essere letto per intero da tutti.

 

CON LA VALIGIA DI CARTONE...   di Antonio Calabrese



Quella sera Michele andò a dormire, tutto contento, subito dopo Carosello.

L'indomani era giorno di vacanza e non c'era scuola, essendo la festa dell'Immacolata, ma la cosa che lo rendeva ancor più gioioso era che si stava avvicinando il Natale.

La mamma e la nonna gli avevano promesso grandi regali e lui era ansioso in attesa della Festa.

Contava i giorni fin dal suo compleanno, il due di ottobre, quando sua madre gli aveva consegnato venti mila lire e una lettera di suo padre.

Rocco, il papà di Michele, era emigrato in Germania e non tornava a casa dal Natale scorso. 

Di solito tornava una quindicina di giorni anche nel mese di agosto giù in Basilicata, ma quell'anno gli era capitato un lavoro extra ed era rimasto su a far qualche soldo in più.

D'accordo con sua madre gli avevano, quindi, fatto quel sostanzioso regalo di compleanno.

L'assegno era arrivato a fine settembre. Rocco aveva preso la paga del lavoro estivo e tenendo per se solo qualcosa, triste per la mancata visita alla famiglia, spedì un bel gruzzoletto inaspettato alla famiglia.

Felicetta corse subito alla posta e versò tutto nel libretto postale. Preferiva prendere i soldi poco a poco, man mano che le servivano. Aveva paura a tenerli in casa e d'altronde cercava di arrangiarsi senza spendere troppo. Usava i soldi giusto per pagare le bollette e per qualche spesa necessaria.

L'orto bastava a sfamarli e ogni volta che i suoi prendevano la pensione, le davano un regalino per fare la spesa alla bottega o acquistare qualcosa per i bambini. 

Il pane Felicetta lo faceva in casa con la farina del proprio grano: era più conveniente.

Michele e sua sorella Nunzia erano abituati da sempre al pane di casa e non facevano capricci, ma ogni tanto la mamma comprava loro il panino con la mortadella da portare a scuola.

Il pane fatto in casa, appena sfornato, d'altronde era buonissimo e ne faceva sempre una bella scorpacciata condito con l'olio o col pomodoro fresco in estate.

Tolta la giornata del mercato che movimentava un po' il paese, non c'erano svaghi, ma il periodo di fine novembre era sempre quello più indaffarato per le famiglie.

Bisognava raccogliere gli ultimi frutti autunnali e far seccare peperoncini e legumi. Chi aveva la vigna doveva prepararsi alla vendemmia e, cosa più faticosa, preparare le campagne alla raccolta delle olive. 

Per chi, come Felicetta, aveva il marito emigrato, il lavoro era sicuramente più pesante e i bambini non potevano certo permettersi il lusso di far capricci e storie. 

Buoni buoni se ne andavano a scuola da quando iniziava il primo di ottobre e in casa aiutavano come potevano. Anche sbrigare qualche piccola commissione in paese, era un grande aiuto.                 

Ogni volta che il suo papà partiva, prima di entrare nell'auto a noleggio insieme ad altri paesani, Rocco diceva sempre a Michele:

“Mò si tu l'ommene de case, me raccumanne de nan fà arrabbià a màmmete, ca me dice tutte, se no ije nan te porte nudde. Niènte ciucculate e caramèlle.”

“Ora sei tu l’uomo di casa, mi raccomando di non fare arrabbiare tua madre, che mi dice tutto, se no io non ti porto niente. Niente cioccolate e caramelle.”

Michele annuiva triste triste e in cuor suo sentiva quel compito come una missione da portare a termine fino al prossimo ritorno di suo padre.

Ogni volta vedeva sua mamma piangere seminascosta perché intorno c’era altra gente e allora anche a lui spuntavano le lacrime, ma lesto le ricacciava indietro e faceva lo scemo ridendo e scherzando col papà che lo abbracciava stretto e poi s’infilava subito in auto per non far vedere le sue lacrime...

Tutti piangevano, ma chissà perché, tutti cercavano di nasconderlo.

Il giorno del compleanno, quando sua madre gli diede quelle ventimila lire, non credeva ai suoi occhi.

“So tutte i mije?”

“Sono tutti miei?”

“E cèrte, so lu rijale mije e de papà, p’accattàrete qualche cose pe Natale. Te sèrvene re scarpe e pure nu cappotte, ca sì cresciute e cudde ca tiène te vaije zicche.”

“E certo. Sono il regalo mio e di papà, per comprarti qualcosa per Natale. Ti servono le scarpe e pure un cappotto, che sei cresciuto e quello che tieni ti va piccolo.”

Le madri avevano la capacità di prendere sempre due piccioni con una fava. Sapevano quello di cui avevi bisogno e facendo finta di regalarti qualcosa, sapevano fartela usare per quel che avevano previsto. 

Ti facevano contento e gabbato con poco, ma a dieci anni, fino ad una cinquantina d'anni fa, non c’era la malizia di oggi e ogni minima cosa ci sembrava un dono. Bastava poco a farci felici.

Michele guardò e riguardò cento volte quei “soldi di carta” e si sentì ricco.

Mai aveva avuto un tale regalo, ma quel giorno compiva dieci anni, stava diventando grande e nella lettera a lui indirizzata, suo padre gli ribadiva che doveva aver cura della famiglia mentre lui era lontano a lavorare. 

Le altre diecimila lire dei nonni, poi, lo resero euforico per tutto il giorno. Sapeva che servivano a comprare dei vestiti, ma era tanto contento di sapersi padrone di un simile dono e andò subito fuori a raccontarlo a Donato e Michelino, i suoi amici di giochi, nonché vicini di casa. 

L'indomani, quando Michele tornò da scuola, consegnò un foglio a quadretti piegato in quattro a sua madre dicendole che era una lettera di ringraziamento per il suo papà e se gliela poteva spedire.

Felicetta sorrise, facendo finta di nulla.

Le mamme di un tempo, stanche e sempre indaffarate, erano poco espansive e, per un'innata e incomprensibile ragione, cercavano sempre di nascondere gli amorevoli sentimenti. Erano poco propense alle carezze, ma facevano di tutto per accontentarti senza darlo a vedere. Tutto sembrava casuale o, peggio, dovuto e non s'aspettavano ringraziamenti.

A vederle oggi, sembrerebbero fredde, le madri lucane di un tempo.

Piene di affanni e pensieri chiusi nel cuore e la vita scritta dalle rughe sul viso. Capelli presto canuti e labbra senza sorriso.

Solo la rabbia sapevano sfogare.

“Nunzia, sì cuntènte ca sciame arru mercate?”

“Nunzia, sei contenta che andiamo al mercato?”

“Boh...sè, me piace... nonna Giulije m’à ditte ca m'accatte na cose.”

“Boh, si, mi piace…nonna Giulia mi ha detto che mi compra una cosa.”

I due fratellini dormivano nella stessa stanzetta.

Nunzia era una dolce bimba di nove anni, timida e silenziosa, che stava sempre attaccata a sua madre osservando con interesse tutto ciò che lei faceva. 

A questo modo aveva già imparato a rifarsi il letto, a lavare i piatti, a spazzare e lavare il pavimento e tanti altri piccoli lavoretti. 

Aveva imparato a usare l’uncinetto e, di nascosto, stava facendo una bella sciarpa calda per il suo papà con la lana comprata dalla nonna che durante l'estate le aveva insegnato a lavorare ai ferri. 

Cose semplici, dritto e rovescio, ma per la sua età era un gran bel risultato e la nonna ne era orgogliosa. Insieme, complici, avevano deciso di fare quel regalo al papà per Natale. 

In Germania faceva freddo e una bella sciarpa calda avrebbe fatto comodo.

Michele smaniava nel letto e non riusciva a prendere sonno.

D'altronde erano ancora le nove di sera, ma sempre a quell'ora andava a letto e tutte le sere crollava stanco dopo i giochi pomeridiani in giro per il quartiere, ma quella sera era molto eccitato pregustando la giornata del mercato e cercò di ricordare il mercato degli anni prima.

L'anno precedente c'era stata la pioggia e in cuor suo pregava che facesse bel tempo. A dir la verità, in serata, qualche nuvoletta c'era, ma sua madre gli aveva detto di stare tranquillo...

Lungo la strada avevano incontrato tanta gente che andava al mercato e lui si era accodato ad altri bambini a parlare e scambiare di figurine.

Chiacchierando, il tragitto gli sembrò breve e appena svoltata l'ultima curva, s'incominciavano ad intravedere le prime bancarelle. 

C'erano macchine parcheggiate lungo la strada e cominciava già la confusione. Al mercato, infatti, arrivavano anche cancellaresi e pietragallesi che venivano tutti in auto.

Le voci dei mercanti che urlavano vantando la loro mercanzia si confondevano tra loro ed intorno la folla di donne e bambini che guardavano tutto, s'accalcava ad ogni bancarella. 

Pur non dovendo acquistare nulla, la curiosità di vedere cose belle e novità, era sempre tanta per tutti. Gli uomini, più che i vestiti, cercavano attrezzi da lavoro, pantaloni di fustagno e scarponi da campagna, i bambini come Michele s'incantavano davanti ai dolciumi e alle bancarelle di giocattoli. Nonno Francesco gli aveva comprato il tamburo di plastica e lui lo aveva battuto felice fino a casa prendendosi più volte i rimproveri di sua madre.

Quella notte gli tornarono alla mente molti particolari del mercato e non seppe mai se fu un sogno o veri ricordi confusi nel dormiveglia inquieto.

Vedeva bambini con le trombette rosse che suonavano gonfiando a dismisura le gote, bambine con Cicciobello ancora inscatolato, altre con lunghe trecce che chiedevano mollette e nastri, bimbi piccoli che piangevano perché non volevano scendere dal cavalluccio rosso di plastica con le rotelle, ragazze che cercavano cappotti e vestiti e mamme che, pazienti, stavano dietro a tutto. 

Poi, improvviso, un profumo allettante stuzzicava le narici e come un miraggio nel deserto, bella tra le belle, apparve la bancarella più ricca e desiderata: quella dei dolciumi!

Un tripudio di colori invitanti danzava davanti agli occhi di Michele e tutto sembrava animarsi ed andargli incontro.

Mandorle tostate, ceste di fichi secchi, incartapecoriti dal forno, nascondevano al loro interno noci croccanti... e liquirizia, caramelle, coni finti...erano esposti in cesti colorati. 

Più in là, sulla stessa bancarella che sembrava grandissima, mucchi spropositati di noccioline, ceci e semi di zucca, facevano bella mostra di se.

Michele, ammaliato, prendeva a piene mani un po' di tutto. Riempiva le tasche di ceci e noccioline e mangiava uno dietro l'altro, rotolini di liquirizia che gli annerivano le dita. D'improvviso si fece silenzio e intorno non c'era più un'anima viva.

Solo lui e la bancarella golosa. Più nulla.

“Mange, mange..., doppe vide come te face male la panze!”

“Mangia, mangia…, dopo vedi come ti fa male la pancia!”

Michele si guardò intorno, ma non vide nessuno e continuò a mangiare.

“E te pare ca la fernisce! Baste chiù!”

“E ti pare che la finisci! Basta più!”

“Ohhh, ma chi sì? Che vuò?”

Ohhh, ma chi sei? Che vuoi?"

“Qua, guarde qua. Addo tiène a mènte?”

“Qua, guarda qua. Dove guardi?”

Dietro il mucchio di ceci abbrustoliti, accatastati in diversi colori, c'erano piccole file ordinate di torroni incartati a caramella.

Michele si stropicciò gli occhi e pensò che non potevano essere stati quelli a parlare, ma una fragorosa risata lo spaventò e sussultò.

“Ciuote! E chè, te pare ca mò i torrone e i mastacciuole parlene? Lu ciuote! Ahahahahhhhhhaaahhh.”

“Scemo! E che, ti pare che adesso i torroni e i mostacciuoli parlano? Lo scemo!”

Michele si sentì chiamare e si ritrovò davanti al suo lettino.

Aprì gli occhi confuso e vide sua madre che lo prendeva in braccio per rimetterlo a letto.

Era stato un sogno.

“M’hai fatte piglià na paure. Hai scettate nu gride! Mene male ca Nunzie nan se jè ruhugliate, ca jè ancore prèste!”

“Mi hai fatto prendere una paura. Hai mandato un grido! Meno male che Nunzia non si è svegliata, che è ancora presto!”

“Iè ore, mamme? Iè hore de scì arru mercate?”, chiese Michele, tutto contento e incurante di ciò che gli era appena successo.

“E’ ora, mamma? E’ ora di andare al mercato?”

“Michè, ru saie...quanne gredaste, stacive venènne a ruhugliàrete pe dìcete na cose. Lu siènte che viènte ca tire? Ha trate forte tutte la nuttate e ije nan agge pigliate suonne. Stache scènne arru Sculare a vedè che iè succièsse arre ulìve. Spèrame ca nan à fatte qualche huaje!”

“Michele, lo sai…quando gridasti, stavo venendo a chiamarti per dirti una cosa. Lo senti che vento tira? Ha tirato forte tutta la nottata e io non ho preso sonno. Sto andando allo Scolaro e vedere che è successo alle olive. Speriamo che non ha fatto qualche guaio!”

“E arru mercate nan ge sciame,allore?”

“E al mercato non ci andiamo, allora?”

“Figlie mije, se me sbrihe prèste, sciame, senò, nan te prèoccupà ca sabbete sciame arru nèhozie e t'accatte ijè 'ncuna cose!”

“Figlio mio, se mi sbrigo presto, andiamo, senò, non preoccuparti che sabato andiamo al negozio e ti compro qualche cosa!”

Michele si mise a piangere.

“Ru sapive! Mò vache a vedè re ulìve e chi ru sape quanne torne!”

“Lo sapevo! Adesso vado a vedere le olive e chi lo sa quando torno!”

Senza tante cerimonie, sua madre si alzò dal letto dove si era appoggiata.

“Oh, fernìscele e duorme! Te staije culcuate qua arru caude e ije mò vache fore. Ancore sò i sèije de lu matine. Passe ddo nònne e je diche ca vène quà. Quanne tòrne se ne parle.”

“Oh, finiscila e dormi! Te stai coricato qua al caldo e io adesso vado in campagna. Ancore sono le sei del mattino. Passo da nonna e le dico che viene qua. Quando torno se ne parla.”

Michele si tirò le coperte al collo e si nascose a piangere sul cuscino. 

In un attimo vide sparire la gioia di passeggiare per il mercato a guardare le bancarelle, a scegliere le scarpe nuove e il nuovo cappotto. Aveva sperato d'indossarlo all'arrivo di suo padre a Natale ed invece...il vento...ma proprio quella notte doveva tirare? Non poteva aspettare un altro poco? Non riuscì a prendere sonno e udì la mamma uscire e la nonna arrivare dopo poco.

Alle sette, tra gli ululati del vento, sentì la campana della chiesa, scoccare l'ora e si alzò arrabbiato.

Sua nonna stava accendendo la cucina a legna e appena lo vide gli chiese se voleva il latte.

Si sedette arrabbiato e non le diede conto. Sua nonna scaldò il latte e glielo mise davanti con dei biscotti.

“Avante, mange ca haia crèsce!”, disse la nonna.

“Avanti, mangia che devi crescere!”

La nonna, sapendo il suo cruccio, cercava di sdrammatizzare per tirarlo su, ma lui rimase imbronciato a lungo e non disse una parola.

Nel frattempo si era svegliata anche Nunzia.

Lei non sembrava dispiaciuta per la fiera, ma per la mamma che era andata, con quel vento, in campagna. Si sistemò, mangiò il suo latte e si sedette, accanto alla stufa coi suoi ferri, mentre la nonna preparava qualcosa da mangiare.

“Nonna, nan vaije arra mèsse?”

“Nonna, non vai alla messa?”, chiese Nunzia.

“Cèrte ca vache. Finche ai nove! Ntante fazze lu suche, accussì, quanne vène mammete, mangiame tutte qua e doppe se ne parle!”

“Certo che vado. Fino alle nove! Intanto faccio il sugo, così, quando viene tua madre, mangiamo tutti qua e dopo se ne parla!”

“E mamme quanne vène?”

“E mamma quando viene?”

“E pènze ca vène prèste. Ma Dìje sole ru sape!”

“E penso che viene presto. Ma Dio solo lo sa!”

“E doppe sciame arru mercate?”

“E dopo andiamo al mercato?”

“Doppe vedìme!”

“Dopo vediamo!”

Michele si era rinchiuso nella sua stanza a giocare con le figurine. Le guardava e riguardava. Le contava e le sistemava annoiato. Sdraiato sul letto ripensava al sogno della notte trascorsa e si sentiva confuso ed arrabbiato. Aveva atteso tanto quel giorno ed ora...

Alle nove, la campana della Chiesa invitò alla messa, ma Michele disse alla nonna che sarebbe rimasto a casa a studiare.

Non era la prima volta che restava solo e la nonna sapendo che poteva fidarsi, uscì con Nunzia.

In realtà, Michele aveva pensato al suo da fare e, appena fu solo, indossò una vecchia tuta, prese un cappello e uscì a sua volta.

Fuori c'era Donato coi pantaloni nuovi che stava andando al Paschiere.

“Oh, nan vìène arru mercate?”

“Oh, non vieni al mercato?”

Michele non gli rispose e, imbronciato, filò dritto con le mani in tasca verso l'uscita del paese. Aveva deciso di andare da sua madre.

"Mamme, addò si?”

“Mamma, dove sei?”

Il vento, ancora forte, riportò l'eco della flebile voce del bambino tra gli ulivi.

Seppur arrabbiato e deluso, aveva capito che sua madre aveva le sue ragioni per andare in campagna anche in quel giorno di mercato ed aveva deciso di andare ad aiutarla.

Felicetta, dal canto suo, era uscita di casa piangendo. Piangeva la sua sorte di moglie senza marito che doveva fare da madre e padre ai suoi figli, sembrando dura anche quando non voleva. Piangeva per il lavoro che mancava e che la costringeva a raccogliere olive dal padrone “ad haute” “a terzi” e senza giornate (senza essere ingaggiata). 

Piangeva per quel figlio arrabbiato che voleva solo un poco di svago...piangeva, mentre raccoglieva le belle olive ormai mature che luccicavano come perle nere appena sgusciate. 

Guardando l'abbondanza che era caduta in quella notte, si rincuorò e, lesta lesta, cercò di raccoglierne il più possibile, pregando che non piovesse, perché dopo il vento di solito arrivava la pioggia...

Sola coi suoi pensieri non badava all'ora e estraniata da tutto, non s'accorse subito del richiamo del figlio. Quando le parve di udire una voce, pensò fosse il vento e continuò il suo lavoro.

“Ohi mà, so tre ore ca te chiame!”, gridò Michele, ridendo.

“Ohi mamma, sono tre ore che ti chiamo!”

“Figlie de bona mamme, m’haije fatte piglià na pahure! E che faije qua?”

“Figlio di buona madre, mi hai fatto prendere una paura! E che fai qua?”

“So menute ad aiutarete! Forza, daije, muvìmene c’amma scì arru mercate!”

“Sono venuto ad aiutarti! Forza, dai, muoviamoci che dobbiamo andare al mercato!”

Felicetta lo abbracciò sorridendo e decise che quel figlio si meritava davvero un premio. Con la sua compagnia e il suo piccolo aiuto, raccolse quel che poté e dopo aver nascosto nel pagliaio i sacchi riempiti in mattinata, decise che era ora di tornare a casa. 

Nella strada del ritorno, accompagnati dal vento che si andava man mano calmando, madre e figlio, chiacchierarono allegri fino a casa dove la nonna aveva preparato un bel sugo.

I nonni mai avrebbero pensato che Michele sarebbe andato fino in campagna da sua madre. Pensavano fosse in giro a giocare e rimasero stupiti quando Felicetta glielo raccontò.

Pranzarono in fretta e a mezzogiorno erano tutti in cammino verso il mercato. Michele, finalmente contento, acquistò le sue belle scarpe nuove ed il cappotto e la mamma comprò pure i torroni e le nocelle per Natale.

Lui osservò divertito tutto e scrutò ben bene la bancarella dei dolci per vedere se qualcosa si muovesse...ma nulla.

Tutto era stato un bel sogno!

Il giorno dopo l'Immacolata, Michele, tutto contento per i suoi vestiti nuovi, si mise a fare il presepe. Di solito lo faceva l'otto pomeriggio, ma dato che erano andati al mercato ed era tornato stanco, aveva rimandato.

Il muschio l'aveva raccolto qualche giorno prima nell' orto e l'aveva messo ad asciugare un po', dato che era bagnato.

In casa sua facevano il presepe da sempre.

La mamma ci teneva ed anche se i pastorelli che possedevano erano pochi, diceva che bastava il simbolo. 

Fin da piccolo, aspettava quel periodo impaziente e, da un paio di anni, la mamma glielo faceva fare da solo. 

Qualche giorno prima aveva chiesto al nonno se poteva andare con lui all'orto e il nonno l'aveva accontentato, anzi, gli aveva tagliato lui stesso dei ramoscelli di pino.

Gli anni precedenti lo avevano sempre fatto all'ingresso, su un mobiletto appendiabiti, ma quell'anno aveva deciso di farlo in cucina. Sua madre non voleva, ma poi aveva acconsentito.

“Mamme, se nuije stacìme sèmpre nta la cucine, chi lu vède lu prèsèpie nta lu corridoije?”

“Mamma, se noi stiamo sempre in cucina, chi lo vede il presepio nel corridoio?”

“Ma che dice, iè bèlle appène aprime la porte, lu vedìme pe prima cose e pò addo lu faije 'nta la cucine ca nan c'è spazzie?”

“Ma che dici, è bello appena apriamo la porta, lo vediamo per prima e dove lo fai in cucina che non c’è spazio.”

“Tu lassa fà a mive!”

“Tu lascia fare a me!”

Stringendo le spalle lo lasciò fare perché sapeva che tanto l'avrebbe avuta vinta sempre lui...

Michele era un piccolo testone quando s'impuntava in qualcosa, ma sua madre in cuor suo era orgogliosa di quel figlio tanto assennato e giudizioso anche se aveva il suo caratterino.

Un caratterino da lucano, in fondo!

L'angolino l'aveva adocchiato già da tempo, lui...

Una sera, mentre giocava a dama con la sorellina, sdraiati per terra, aveva pensato che il presepe a terra, ci sarebbe stato benissimo.

Accanto alla cucina a legna, dove c'era la cesta piena di tronchetti tagliati a misura. Bastava spostarla sotto il tavolino con la tendina, dove poggiavano l'olio, il sale ecc. e lo spazio era perfetto.

Ogni giorno studiava come fare per non arrivare impreparato e finalmente quel nove di dicembre poté realizzare la sua opera.

“Cumma Marije”, una vicina di casa, gli aveva regalato un pezzo di fodera blu scuro e insieme alla sorellina, nelle prime sere di dicembre, avevano creato e colorato delle stelline di carta da attaccare con la colla.

Fissò il cielo stellato con delle puntine e, poi, a terra, modellò, qua e là, con fogli di carta appallottolata, delle montagnole. Le rivestì col muschio e appoggiò al muro i rametti di pino raccolti dal nonno. Ai rametti attaccò altre stelline.

Da un angolo del boschetto fece scaturire un bel fiumiciattolo, anche quello dono di sua zia...

“Cumma Marije” aveva una scatola dove raccoglieva un po' di tutto: bottoni, vecchie cerniere, nastri, lacci, pezzi di stoffa...e il fiume, altri non era che un bel pezzo di stoffa azzurra che lei stessa gli aveva tagliato a misura.

Ogni volta che a Michele serviva qualcosa che in casa non aveva, era certo che dalla “cummare” l'avrebbe trovato.

Poggiò dei sassolini lungo le sponde, per trattenere la stoffa e poi si dedicò alle stradine di segatura che aveva raccolto nella falegnameria di “Maste Tucce Pèpe”, “’mpiède la tèrre.” 

A dire la verità era una segatura un po' grossolana, ma l'effetto che dava a lui piacque e decise di lasciarla.

La grotta la mise al centro della scena circondata dal boschetto. In estate aveva messo via tutta la carta della bottega di “Chelucce Papà”, proprio per quello scopo e c'era voluto tanto perché non si andava tutti i giorni al negozio...

Aveva lavorato inginocchiato a terra e si alzò a vedere l'effetto.

La grotta stava proprio bene al centro e là davanti sparpagliò un po' di sabbia che aveva raccolto in un cantiere vicino alla scuola elementare, dove stavano ristrutturando una casa.

Appena fu soddisfatto del risultato, prese la scatola di latta dove custodiva i pastorelli.

La natività era in terracotta molto vecchia perché sua mamma un tempo aveva solo quella, poi negli anni avevano aggiunto i pastorelli di plastica che vendeva “Tarèse de Trubbeche.” Uno o due all'anno, non di più. Di plastica erano anche il bue e l'asinello e le pecorelle che mise ai lati della grotta come a voler guardare dentro, curiose.

Mise in un angolo la Madonna col mantello ormai sbiadito e dall'altro San Giuseppe appoggiato al suo bastone. Al centro la mangiatoia vuota e passò a sistemare il resto.

Una lavandaia con la cesta sul capo, vicino al fiume, il ponticello di legno che gli aveva fatto il nonno, un cacciatore nel bosco, due pastorelli ad osservare da lontano, un bambino col cane, una madre con bambino, un pescivendolo con una cesta di pesci, una vecchietta che filava, una pastorella con una gallina in mano e i tre re Magi, tutti uguali, tranne uno che aveva il volto più scuro, li mise sulla stradina.

A scuola, la maestra gli aveva insegnato a fare le casette di cartone e lui ne aveva fatte già quattro che posizionò in vari punti.

Mancava solo la stella cometa che aveva deciso di mettere sempre per ultima. Che bella la stellina! La teneva come una reliquia perché ogni anno perdeva la porporina argentea che la ricopriva. Era avvolta da un pezzo di stoffa come gli aveva suggerito sua madre ed era chiusa a parte. Era molto delicata e ogni volta che la poggiava sulla grotta s'incantava a guardarla per un pezzo. L'avevano comprata solamente qualche anno prima. Prima ne mettevano una di solo cartone e si era rovinata.

Michele era solo in casa e tutto contento aspettava il ritorno di sua madre dalla campagna. La sorellina era dalla nonna e lui ne aveva approfittato per lavorare in santa pace. Cercò d'immaginare le loro reazioni quando s'accorse di una cosa a cui prima non aveva fatto caso...mancava qualcosa...l'Angelo! 

Il suo presepe non aveva un angelo!

Lì per lì pensò di andare a disegnarlo, ma poi gli venne in mente una cosa.

Mamma gli aveva promesso che sarebbero saliti al Paschiere prima di Natale e aveva deciso! Lo avrebbe comprato coi soldi che gli erano rimasti del regalo di compleanno! 

Mentre pensava tra sé, si aprì la porta. Mamma era tornata, insieme alla sorellina.

“Come iè belle, Michè!”, gridò la sorellina festante, correndo verso il presepe.

“Come è bello, Michele!”

“Mamme, te piace?”, chiese Michele.

“Mamma, ti piace?”

“Michè, sè, iè proprie bèlle, auànne!”, rispose sorridendo sua madre, guardando tutti i particolari del piccolo presepe fatto a terra in quell'angolino della sua cucina.

“Michele, si. È proprio bello, quest’anno!”

“Craije l’amma fa vedè pure ai nonne!”

“Domani dobbiamo farlo vedere anche i nonni!”

“E cèrte che sì. Craije se ne parle!”

“E certo che sì. Domani se ne parla!”

Era molto contento Michele e, aggiustando qualcosa qua e là, andava cercando il modo giusto per dire a sua madre dell'Angelo, ma sapeva già in cuor suo come sarebbe andata a finire.

Un presepe senza angelo, che presepe è?

Non sapeva ancora il piccolo Michele, che con gli anni il presepe sarebbe diventato un'opera d'arte con luci, ombre, movimenti, acqua vera e quant'altro.

Michele e Nunzia erano molto contenti perché stava per ritornare il loro papà dalla Germania.

Finalmente stavano per cominciare le vacanze di Natale e, siccome pioveva spesso, passavano il loro tempo tra casa dei nonni e quella della zia Rosa, che abitava vicino.

Quando poteva, appena usciva uno sprazzo di bel tempo, la madre correva all'uliveto a raccogliere le ultime olive, ma, dopo il vento dell'Immacolata, non aveva fatto altro che piovere e per i poveri contadini era uno strazio lavorare nel fango, ma, del resto, il prezioso frutto non si poteva lasciar marcire e ci si arrabattava, come si poteva. 

A suo tempo, nonno Francesco aveva costruito “lu pagliare” con canne di recupero e due lastre di “ramère”, che serviva da piccolo rifugio in caso di pioggia e ogni volta sembrava che il vento lo volesse spazzar via, ma resisteva temerario a burrasche e temporali, come se volesse adempiere al suo compito ancora per molto.

La cucina di nonna Giulia profumava sempre di qualcosa di buono.

L'ultimo giorno di scuola, appena svoltato l'angolo della via di casa, si spandeva nell’aria un delizioso profumino di fichi al forno. La nonna, infatti, stava preparando i fichi, seccati al sole durante l'estate, e poi imbottiti con noci o mandorle ed infornati. 

La nonna metteva sul fuoco la padella ripiena d’olio per friggere “re pèttule” e “re scarpèdde” e “i panzèrotte che i cìcere”, che erano i dolci di Natale un po' in tutte le case del paese e del circondario e insieme alle castagne, alle noci e a qualche nocciola, non mancavano quasi mai a fine pranzo o per passare qualche ora in compagnia di amici e parenti con un buon bicchiere di vino fatto con l’uva della vigna di nonno Francesco allo Scolaro.

Fuori faceva freddo, ma dentro, con la cucina a legna che andava a tutto spiano, c'era un bel calduccio. 

Michele buttò la cartella su una sedia all'ingresso e corse a sedersi a tavola dicendo che era affamato, ma nonna Giulia lo spedì prima a lavarsi le mani. Il nonno sedeva vicino alla cucina ed attizzava il fuoco con la sua aria pacata. Era un tipo di poche parole e da quando aveva “preso la pensione”, passava il tempo in piazza e all'orto vicino a casa. 

La tavola era già apparecchiata per quattro e la nonna scodellò nei piatti un'invitante pasta e fagioli, che i bambini divorarono con gusto e senza fare storie.

Erano abituati a mangiare tutto ciò che trovavano in tavola, anche le verdure e i peperoni. Non erano tempi di capricci, quelli!

“Nonna, me daje na fica sèccate?”, chiese Michele alla fine del pranzo.

“Nonna, mi dai un fico secco?” 

“Cèrte ca te la dache, pe vuje r’agge fatte. Ijè e nònnete na ne putime mangià, ca na re putìme rusucuà... sole ca haja aspettà ca se dufrèddene, ca ancore sò caude caude. Chiù tarde te re mange.”

“Certo che te lo do, per voi le ho fatte. Io e tuo nonno non ne possiamo mangiare, perché non le possiamo masticare...solo che devi aspettare che si raffreddino, che ancora sono calde calde. Più tardi te le mangi.”

Verso le quattro, tornò la mamma dalla campagna. Era visibilmente stanca ed infreddolita e Nunzia le saltò al collo e l'abbracciò contenta di rivederla. Dai nonni stavano bene, ma tornare tutti insieme a casa, la sera, era sempre un piacere. 

Rimasero ancora un'oretta chiacchierando del più e del meno e verso le cinque, quando già fuori era buio anche per il maltempo, tornarono a casa loro.

Michele e Nunzia erano eccitati perché l'indomani aspettavano il ritorno del papà dalla Germania.

Sapevano che era già in viaggio perché era molto lontano e il treno doveva attraversare tutta l'Italia per riportarlo a casa. 

Poi c'era la strada dalla Stazione Inferiore al paese e ci voleva la macchina a noleggio per andare a prenderlo. Siccome viaggiava in gruppo con altri paesani, chiamavano “Pèppe Abbatiste, lu noleggiatore”, un signore che faceva un viaggio per tutti come all'andata e le famiglie non avevano l'impiccio di andare pure loro, ma attendevano a casa il ritorno dei loro cari. 

Michele sognava, in cuor suo, di andare un giorno alla stazione. Ne aveva vista una alla televisione, una volta. C'era tanta confusione e i treni erano grandissimi e lunghissimi! 

Tutti portavano valigie e si sentiva il fischietto del capo treno.

Doveva chiedere a papà di raccontargli meglio com'era la stazione...era proprio curioso di saperlo.

“Mà, craie amma scì a coglie re ulive?”

“Mamma, domani dobbiamo andare a raccogliere le olive?”

“Se nan chiove, sì. Fernìme d’accòglere, accussì re pulzame na botte e doppe Natale re maciname, quanne nc'è papà.”

 “Se non piove, sì. Finiamo di raccoglierle e dopo Natale le maciniamo, mentre c'è papà”

Era da poco finito il Carosello, e come al solito, per loro era ora di andare a dormire. La mamma, invece, restava sempre sveglia a lavare, rammendare, pulire qualcosa ecc. e andava a letto più tardi facendo in modo di non disturbare i bambini.

Nella stanzetta, i due fratellini non presero, però, sonno subito. Erano eccitati all'idea del ritorno del papà e facevano a gara ad indovinare cosa avrebbe portato stavolta.

“Re cioccolate, securamènte!”, disse Nunzia.

“Le cioccolate, sicuro!”

“Quèdde re porte sèmpe e pure re caramèlle...”

 “Quelle le porta sempre e pure le caramelle.”

Come tutti i bambini, desideravano dolciumi, perché non li mangiavano tutti i giorni, ma ogni volta che papà, uno zio, un qualsiasi parente o amico tornava “dall'estero”, la provvista di cioccolata e caramelle era assicurata per un bel po'. 

Lo facevano tutti e anche il loro papà, andando a salutare i parenti, come era usanza, portava loro qualche cioccolata, caffè, zucchero...roba tedesca. 

Ed erano molto graditi, anzi, s'offendevano se qualcuno non portava niente. 

Quel Natale sarebbe stato bellissimo, tra la frutta secca della nonna, i torroni e le nocelle che la mamma aveva comprato “arru mercate de lu Paschière” e la cioccolata della Germania...

Michele e Nunzia s'addormentarono felici quella sera, nonostante i tuoni e i lampi del temporale che era scoppiato all’improvviso.

Il giorno dopo, Michele e Nunzia si svegliarono con un forte temporale e Felicetta, non potendo andare in campagna, si mise a pulire casa da cima a fondo, aiutata dalla piccola Nunzia che voleva spolverare, mentre Michele rimase sdraiato a letto leggendo svogliatamente un fumetto che gli aveva passato l'amico Donato. 

Il suo pensiero era al ritorno del padre previsto per il pomeriggio e non vedeva l'ora di riabbracciarlo.

Verso mezzogiorno smise di piovere e, dopo mangiato, sua madre gli consigliò di cominciare a fare qualche compito di scuola, ma non aveva nessuna voglia di aprire i libri chiusi a malapena da un giorno e decise invece, di andare a trovare Donato che abitava vicino per giocare un po' a carte. 

Nunzia aveva finito la sciarpa per il suo papà già da qualche giorno e ogni tanto la stendeva sul letto e la guardava, accarezzandola orgogliosa e immaginando il momento della consegna.

Il tempo sembrava scorrere lento nell'attesa, ma finalmente, tra una sbirciata all'orologio e una alla finestra, s'udì fermarsi una macchina giù nella via e Michele corse veloce a vedere.

Era tornato papà dalla Germania!

Udendo un po' di frastuono, qualcuno osservava dietro le finestre e altre vicine si erano affacciate al balcone o all'uscio per vedere. 

Era sempre così... tutti volevano sapere di tutti.

Rocco, educato, salutò con un cenno le vicine e abbracciò il figlio festante che saltellava come un grillo. Poi salutò la moglie e la figlioletta.

Il noleggiatore aveva aiutato a scendere le valigie e già pagato, salutò e ripartì.

Una volta in casa, la famigliola sembrò un fiume in piena di domande e risposte veloci.

“Come staije?... Che haije fatte?...Hai mangiate, sì stracque...”

“Come stai?...Che hai fatto?...Hai mangiato?, sei stanco?...”

“Come sciate arra scole?... Che se dice 'nta lu pajise?... I tuije come  staijne?...”

"Come andate a scuola?...Che si dice in paese?...I tuoi come stanno?"...

In pochi attimi c'era voglia di raccontarsi mesi e mesi di lontananza con la paura inconscia di non avere il tempo materiale di farlo con calma, ma era solamente l'ansia e la contentezza dell'abbraccio familiare tanto desiderato da ambo le parti.

Dopo i convenevoli e i saluti, arrivò per i bambini il momento tanto atteso e desiderato: l'apertura delle valigie di papà era sempre uno spettacolo...

“Papà, che m’haije purtate?”, gridò Michele.

“Papà, che mi hai portato?

“Che t’agge purtate, che t’agge purtate...e mo ru vide, no?”

“Che t'ho portato...che t'ho portato...ora lo vedi, no?”

Rocco poggiò una delle due valigie sul tavolo della cucina e cominciò ad aprirla pian piano, scherzando coi figli impazienti.

Felicetta sorrideva contenta mentre preparava il caffè.

Era felice di riavere, anche se per poco tempo, il marito a casa e le feste sarebbero state più belle, tutti insieme riuniti.

La curiosità di Michele non rimase delusa. Come già le altre volte, suo padre aveva portato per loro pacchi di caramelle e tavolette di cioccolata di tanti gusti. 

Per un attimo si rivide a tuffare le mani nei mucchi della bancarella di dolciumi del sogno, ma quello non era un sogno, era tutto vero e, tra non molto, presagiva già una bella scorpacciata!

Quando il caffè fu pronto, la mamma scartò una tavoletta di fine cioccolato tedesco e la divise in quadretti per tutta la famiglia, mentre i bambini curiosi, aspettavano di vedere tutto il resto del contenuto della preziosa valigia. Il padre li accontentò subito.

“Re caramèlle e re cioccolate re stipe mamme e ve re daije a picche a picche, senò ve re mangiate totte na vote e pò ve vène lu male de panze. Chiste, mmèce, sò i vuoste.”, disse Rocco porgendo loro due grandi buste.

“Le caramelle e cioccolate le conserva mamma e ve le dà a poco a poco, sennò ve le mangiate tutte in una volta e dopo vi viene il mal di pancia. Questi, invece, sono vostri.” 

Una grande scatola con tantissimi colori a matita e “a spirito”, apparvero agli occhi di Michele che s'illuminarono.

“Come sò bèglie, grazie papà!!! Me servìvene proprie arra scole!”

“Come sono belli, grazie papá!!! Mi servivano proprio a scuola!”

Insieme ai colori, c'era una motocicletta con un poliziotto sopra e Michele, felice, cominciò subito a giocare sdraiandosi a terra.

Anche la busta di Nunzia conteneva gli stessi colori e in più una bambola dai capelli biondi che luccicavano come fossero di seta. Anche lei fu felicissima e abbracciò il papà contenta.

Le sorprese non erano, però, finite. Dopo qualche regalino anche per la mamma, Rocco tirò fuori una bella scatola rosa e, porgendola alla moglie, disse che quello era un regalo per tutta la famiglia.

Quando Felicetta l'aprì, rimasero tutti a bocca aperta.

Delle bellissime sfere di vetro colorato facevano capolino da fogli di carta velina. 

Felicetta la spostò delicatamente e sotto la luce della lampadina, si rifletterono verso il soffitto mille riflessi d'arcobaleno.

“E che sò, quèsse? Come so bèlle!!!”, chiesero quasi tutti insieme.

“E cosa sono quelle? Come sono belle!!!

“Ah, mène male ca nan se so rotte, sò palline pe l'albere de Natale.”

“Ah, mano male che non si sono rotte, sono palline per l’albero di Natale.”

“L'albere de Natale? Ma nuie nane tenìme!”, rispose lesto Michele con la sua parlantina.

“L’albero di Natale? Ma noi non ce l’abbiamo!

“E che i face? L’accattàme!”, rispose suo padre.

“E che ci fa? Lo compriamo!”

Felicetta e Nunzia, intanto, andavano ammirando una ad una le preziose palline di vetro e scoprirono che la scatola aveva due ripiani. Sotto c'erano altri modelli a goccia e un bellissimo puntale rosso e argento.

Avevano paura di romperle tanto erano fini e delicate e dopo averle fatte vedere ben bene a tutti, la mamma le risistemò nel loro contenitore a scomparti. 

A parte, c'era anche una ghirlanda con trenta lucine a forma di fiorellini che mai avevano visto prima.

Anche da loro era arrivato il Natale, quello luccicante e prezioso della Germania.

“Papà, l’haije viste lu presèpie mije?”

“Papà, l’hai visto il mio presepe?

“Ah, che bèlle. E brave Mechèle mije, ca staije duhuntanne nu mastre!”

“Ah, che bello. E bravo Michele mio, che sta diventando un mastro!”

“Te iè piaciute, papà? Hai viste, però, ca manche na cose e na la tenìme.”

“Ti è piaciuto, papà? Hai visto, però, che manca una cosa e non l’abbiamo.”

“E che manche, vuò ca 'nce mettime re luce? Quèste c’agge annùtte!”

“E che manca, vuoi che ci mettiamo lòe luci? Queste che ho portato?”

“Papà, manche l'Angele! Cudde sope la grotte!”

“Papà, manca l’Angelo! Quello sopra la grotta!”

“Ah...e vabbuò, doppe l’accattame. Se craije nan chiove, sciame arru mercate, che decìte?”

“Ah…e va bene, dopo lo compriamo. Se domani non piove, andiamo al mercato, che ne dite?”

“Rocche, ma nan sì stracque? Doppe stu viagge... sciame n’auta dìje”, riprese Felicetta.

“Rocco, ma non sei stanco? Dopo questo viaggio… andiamo un altro giorno.”

“No, sciame craije, se nan chiove.”

”No, andiamo domani, se non piove.”

E così rimasero.

A cena vennero i nonni a salutare il genero appena rientrato e dopo si portarono Nunzia a dormire con loro.

Ancora una volta, Michele s'addormentò eccitato come già per l’altro mercato e quella sera pregò che non piovesse l'indomani.

Alle sei, la mamma lo svegliò e fu contento di sapere che il tempo era bello, anche se non sapevano com'era altrove.

Si prepararono ed uscirono in piazza. Alla fermata dell'autobus c'erano altri paesani che aspettavano e tutti salutarono Rocco, perché si conoscevano e sapevano che era fuori per lavoro.

Non era la prima volta che Michele andava in città, ma ogni volta per lui era una piccola avventura e una nuova scoperta.

Era così grande l'autobus!

Ci potevano entrare molte persone insieme e tutti chiacchieravano tra di loro. E poi era così bello guardare fuori dal finestrino. Tutto sembrava correre veloce e lui si divertiva ad inventare storie fantastiche.

Lo vide arrivare dalla parte di sotto e fermarsi davanti a loro. Salirono e presero posto. Lui accanto alla mamma, naturalmente vicino al finestrino e papà si sedette dietro a loro chiacchierando con un paesano. 

Il controllore fece i biglietti scherzando con lui ed il viaggio iniziò. Il sole cominciava a sorgere e le nuvole si tingevano di un rosa che andava sbiadendo a seconda dei raggi. Il piccolo passeggero rimase incantato a vedere tutto lo spettacolo e davanti ai suoi occhi passavano case, alberi, vie, altri mezzi...

Nelle case si andavano accendendo le luci e si aprivano le imposte. 

Il mondo si stava svegliando.

Nei paesi c'erano le varie fermate e salivano altri passeggeri tutti diretti in città.

A giorno ormai fatto, quasi vicini, s'incominciavano ad intravedere i palazzi della cittadina in lontananza. Erano diverse le case da quelle del paese.

Agli occhi di Michele era tutto più grande e più bello.

Al capolinea scesero tutti i passeggeri e si sparpagliarono.

Michele, tutto contento, prese per mano suo padre e s'incamminarono verso il mercato.

Il cielo era nuvoloso, ma le bancarelle c'erano tutte.

Belle, stracariche di roba e tutt'intorno era rumoroso e affollato.

Era la vigilia di Natale e tutti facevano acquisti a modo loro.

Anche la famigliola fece i suoi giri e i suoi acquisti e non mancarono di comprare l'angioletto per il presepe.

C'era una scatola piena di angeli tutti uguali e Michele li guardò incantato. Le alucce dorate, spiegate in volo, e in mano reggevano un nastro con scritto “Alleluia”.

Erano tutti biondi e ricci e indossavano una tunichetta bianca. Sulla scatola c'era il prezzo: 300 lire.

“Avante, quale vuò?”, chiese sua madre e lui ne prese uno che sembrava più sorridente...

“Avanti, quale vuoi?” 

Il venditore glielo incartò con un pezzo di giornale e glielo consegnò facendogli l'occhiolino. Poi rivolto alla madre cercò di venderle qualcos'altro, ma Felicetta fu irremovibile e s'allontanarono dopo aver pagato.

Il mercato era molto grande e a Michele sembrava tutto bello perché c'era un posto dedicato alla frutta e verdura, uno alle scarpe e vestiti e altre zone erano piene di bancarelle di cose per la casa. C'erano molti bambini come lui, insieme ai genitori e tutti giravano nella bolgia che, in lungo e in largo, osservava, toccava, chiedeva i prezzi, contrattava, acquistava, assaggiava...

Il mercato sembrava un enorme drago che aveva ingoiato tutti insieme alla mercanzia e non riusciva a digerire, tanta era la roba...

Michele sembrava piccolo piccolo nella folla che spingeva e s'accalcava e a tratti aveva persino paura di perdere la mano del padre o della madre e di non ritrovarli più, ma per fortuna ne uscì indenne e, stanco e coi piedi doloranti, si ritrovò finalmente seduto al suo posto sull'autobus, pronto a ripartire.

Il tempo sembrava essere volato e Michele, con lo sguardo ebbro di tutte le cose che aveva visto in quella fredda mattina di dicembre, si addormentò stremato appoggiando la testa al fianco di sua madre.

Lei lo sistemò meglio e lo chiamò solo appena giunti alle porte del paese, quando si risvegliò un po' intontito e con le gambe indolenzite. Era proprio crollato, ma anche dispiaciuto di aver perso lo spettacolo del ritorno.

A casa trovò i nonni che stavano preparando la cena per la vigilia e un profumino di baccalà lesso con la cipolla, gli ricordò che aveva mangiato solo un panino ed aveva fame.

La piccola cucina era in fermento e un forte odore di cavolfiore aveva invaso tutta la casa.

Michele aveva placato la fame con qualche biscotto senza nemmeno sedersi a tavola, tanto era contento, e poi era corso a sistemare il suo angelo sulla grotta.

Papà, dopo aver messo anche lui, in fretta, un boccone sotto i denti, uscì senza dire nulla e le donne di casa rimasero a chiacchierare davanti alla stufa a legna. 

I bambini giocavano coi giocattoli nuovi appena avuti in dono e a loro si erano uniti i cuginetti, che erano, però, più piccoli di loro e Michele si divertiva a fare il capobanda.

Rocco rientrò verso le tre e aprì la porta con un gran frastuono, al che, tutti corsero a vedere.

Stava tirando dentro un grosso ramo di albero indefinito e tutti lo guardarono stupiti senza capire a cosa servisse. Aveva con se anche un secchio con dei sassi dentro e vi adagiò il piccolo tronco senza farlo cadere.

“Ecche, Michè! Tenìme pure nije l'albere de Natale!”, esclamò contento.

“Ecco, Michele! Abbiamo anche noi l'albero di Natale.”

“Tu sì pacce!”, fece di rimando Felicetta, sorridendo.

“Tu sei pazzo!” 

“Muòvete, piglie re palline ca hagge purtate ajière!”

“Muoviti, prendi le palline che ho portato ieri!”

I vecchi genitori osservavano senza capire e Rocco spiegò loro che in Germania era una moda addobbare gli alberi con luci e palline e quell'anno voleva essere lui il primo a portare quell'usanza in paese.

Misero intorno all’albero prima le luci piccole e, poi, tutti insieme, misero le belle e fragili palline tra i rami infreddoliti.

Il loro primo albero di Natale faceva la sua bella figura nell’ingresso, vicino alla specchiera e al porta ombrelli. I bambini guardavano meravigliati le piccole luci che si spegnevano ad intermittenza e creavano mille riflessi sulle pareti, con la lucentezza delle palline...sembrava una magia e non si staccarono da lì, anzi si portarono dietro i giocattoli per giocare là vicino nonostante il freddo.

I grandi, seduti al tavolo di cucina, chiacchieravano e gli uomini giocavano a carte rosicchiando qualche castagna e qualche nocciolina americana, accompagnandole con un bicchiere di vino. 

Era arrivato anche lo zio Antonio, che studiava a Salerno.

Era un Natale semplice, ma caloroso. Fatto di unione e di rispetto reciproco.

La sera scese lentamente e Michele, felice di avere tutta la famiglia riunita, progettava già per l'indomani di invitare i suoi amici a vedere il bell'albero che gli aveva fatto il suo papà. 

Sicuramente in paese lo avevano solo loro, chissà...

Non erano poveri. Erano lavoratori che sapevano risparmiare e si sapevano adeguare come tutti, di quei tempi, e le feste comandate erano un'occasione importante per ringraziare il buon Dio della Provvidenza che li aiutava sempre e anche per questo, andarono tutti insieme alla messa di mezzanotte.

Fuori, senza il calduccio rilasciato dalla cucina a legna, faceva molto freddo, ma la Chiesa non era molto lontana e già dalla strada si udivano i canti natalizi.

Quando arrivarono era quasi piena, in quanto tutto il paese era presente a quell'immancabile appuntamento e, anche se ogni tanto gli occhi si chiudevano da soli, Michele cercò di seguire tutta la funzione, fino a svegliarsi del tutto, quando il parroco fece una piccola processione mostrando a tutti Gesù Bambino, prima di adagiarlo nel presepe allestito accanto all'altare.

Era bellissimo...tutto era bellissimo in quella notte. Anche l'essere lì tutti riuniti, invece che ognuno nelle proprie case. Era Natale!

Finita la messa, tornarono a casa e si scambiarono gli auguri e, con grande gioia di tutti i bambini del paese, fuori s'udiva una bella sorpresa: erano giunti gli zampognari ad allietare l'aria già dolce della festa.

Rimasero tutti insieme ad ascoltarli un po' e poi si salutarono stanchi, prendendo ognuno, la via di casa.

Quella notte s'addormentò tardi, ma era stato il giorno più bello dell'anno per Michele.

Era felice come nessun altro. Nel suo animo bambino non sapeva spiegarsi perché, ma sentiva di essere felice e non chiedeva null'altro che vivere sereno insieme ai suoi cari.

Passato il S. Natale in serenità, Michele sapeva che i giorni seguenti sarebbero stati un po' frenetici.

Per il ventisette, avevano, infatti, in programma di uccidere il maiale, che loro allevavano ogni anno in uno sgabuzzino nell' orto vicino casa.

L'uccisione del maiale era sempre una piccola festa, ma era straziante udire echeggiare le urla di terrore del povero animale da ogni angolo del paese. Michele e Nunzia venivano sempre spediti altrove, lontano da casa e potevano ritornare solo verso mezzogiorno quando il momento più cruento si era già svolto. 

Non era bello far vedere ai bambini un simile scenario, ma qualche temerario che voleva curiosare c'era sempre, nascosto o in bella vista a godersi lo spettacolo.

Michele non aveva ancora quella curiosità, ma sapeva quello che succedeva ai poveri animali.

La cosa che non capiva fino a qualche anno prima era il perché s'accudisse con tanta cura un maiale, dandogli sempre da mangiare e poi ucciderlo... Poi, col tempo, capì...

In quelle occasioni si riunivano i parenti più stretti e qualche vicino e ci si aiutava a vicenda.

Era, infatti, un lavoro molto impegnativo e richiedeva tante braccia.

Era sempre una persona esperta ad uccidere il povero maiale con un coltello lungo ed affilato, “lu scannature”, mentre tanti uomini lo tenevano ben stretto. Una donna forte, che non doveva dispiacersi, s'accingeva lesta lesta a raccogliere il sangue del povero malcapitato, girandolo in continuazione per non farlo coagulare.

Quello, con l'aggiunta di cacao, zucchero ed aromi vari, sarebbe diventato un dolce per grandi e bambini, “lu sangicchije.” 

Il maiale, una volta ucciso, si doveva pelare e per questo servivano i grandi calderoni di acqua bollente. Veniva bagnato con acqua caldissima per ammorbidire le setole e si procedeva a ripulirlo ben bene con affilati coltelli. Dopo questo lavoro certosino, si issava con le corde e la forza delle braccia degli uomini e si appendeva “arra vucculècchie” fissata al tetto del locale per le due zampe posteriori ben legate e veniva squartato. 

In men che non si dica, veniva tutto svuotato dagli uomini, mentre le donne raccoglievano la carne in varie bacinelle e contenitori. 

Una cosa da fare velocemente era quella di svuotare la vescica, sciacquarla e gonfiarla con un pezzo di pasta a cannuccia (“i ziti”). Raffreddandosi, non si sarebbe più gonfiata ed, invece, quel palloncino serviva a fare da contenitore ad un buon salume o riempirlo di sugna.

All'epoca, avveniva tutto all'aperto o in qualche “lammione” e non mancavano capannelli di curiosi intenti a godersi il crudele spettacolo, mentre le donne di casa, sempre maliziose, ripetevano mentalmente, degli scongiuri perché “nan lu pegliàssere ad’uocchije”. Infatti, era molto viva la credenza del malocchio e bastava uno sguardo jettatore a far andare a male mesi di lavoro e tanti denari al vento...perciò tutto il lavoro doveva avvenire in modo lesto e sbrigativo, in un via vai frenetico che contagiava tutti. Poi, finito il lavoro, si procedeva con comodo.

Era un lavoro da esperti, tagliare i pezzi di carne da suddividere per i pregiati salumi e per quelli più “giornalieri”, i pezzi da fare a “carne salata” (pancetta) e i prelibati capocolli.

Tutto procedeva regolarmente come una piccola catena di montaggio familiare. Si sceglieva, si scartava, si puliva, si tagliuzzava e niente si buttava. 

Quando non esistevano ancora i tritacarne, i grossi pezzi venivano tagliuzzati tutti a mano in cubetti che sarebbero, poi, diventati salsicce.

La pasta di carne veniva ammassata “’nta na zuppière” o “sope lu tumbagne” e salata e pepata in abbondanza col peperoncino lucano tritato. Le mani esperte di nonne e mamme sapevano le quantità ad occhio, e non sbagliavano mai. Impastavano e lasciavano a riposo fino al giorno dopo.

Michele e Nunzia tornarono a casa verso mezzogiorno. Erano stati da una cugina della mamma che si era offerta di tenerli per quella incombenza ed ora li aveva accompagnati per aiutare a loro volta.

Quando arrivarono nella via, la nonna stava spegnendo il fuoco sotto la “caudare”, mentre la mamma aveva già ben lavato il grosso delle budella, “re stentìne”, che dovevano essere riempite di carne.

Quello era un compito increscioso, ma da fare per bene visto che le budella servivano proprio a fare i salumi.

In casa, sulla cucina a legna, in una grossa "tijèlle", la nonna stava cucinando degli appetitosi pezzi di carne fresca che sarebbe stato il loro pranzo. Un invitante profumino di spezzatino al vino si spandeva nell'aria e i bambini non vedevano l'ora di assaggiare. 

La cucina era in pieno fermento. 

Su un tavolo messo apposta, papà e lo zio stavano finendo di spolpare “’na pacche” e mettevano tutto in una grande “spase”, mentre un'altra cugina tagliuzzava a pezzettini, veloce veloce.

Dopo una buona mezz'oretta, alle cugine si unirono anche la zia e la mamma a tagliuzzare. Le budella erano ormai lavate e le avevano lasciate in ammollo con qualche goccia di limone per farle indurire. Poi le avrebbero risciacquate per bene. Tutto procedeva alla perfezione e i bambini curiosavano qua e là, ma senza intralciare il lavoro.

Quando la carne risultò ben cotta, la nonna decise che dovevano sospendere e mangiare tutti insieme. Aveva nel frattempo apparecchiato sul tavolo libero e tutti presero posto. 

Fu un momento gaio e spensierato, dove i grandi parlavano del più e del meno e i cuginetti giocavano allegri tirandosi le molliche. Ogni tanto non mancava una sgridata delle mamme perché non buttassero molliche verso la carne e loro fecero di tutto per starci attenti.

Passò anche quella giornata. 

Il maiale era già salato e l'indomani avrebbero preparato le salsicce.

In cucina permeava un forte odore di peperoncino che esalava dall'impasto nella "spase".

Michele ricordò quando avevano infornato il peperoncino nella cucina a legna. Quel giorno non aveva fatto altro che starnutire, tanto era forte e quell' odore di peperoncino al forno era durato per giorni! Di solito la mamma lo faceva tutto nel forno grande, ma quell'anno aveva deciso di farlo a casa, a poco a poco.

La preparazione del maiale per tutto l'anno impicciava per tre, quattro giorni, tutta la famiglia, ma era sempre una festa. Si preparava abbondanza di companatico per tutto l'anno e oltre. 

Le soppressate erano piccole prelibatezze da gustare in occasioni importanti o in compagnia. Erano fatte con la carne più pregiata e più magra del maiale e venivano insaccate nelle budella più grandi. Il resto veniva consumato più giornalmente. 

La “carne salata” erano pezzi di lardo con qualche striatura di magro cosparsi da tanto sale e peperoncino e maturavano pian piano nell' acqua stessa che scolava per, poi, essere lasciati essiccare appesi alla “mazze” al soffitto: una prelibata pancetta. 

Cosa a parte erano i capicolli che non venivano insaccati, ma arrotolati su stessi e legati stretti stretti con delle listarelle di canna.

Il terzo giorno, quando i salumi erano ormai tutti pronti, se le ossa spolpate avevano ancora rimasugli di carne attaccata, venivano cotti a lungo insieme a ritagli e cotenne. In quell'occasione s'invitavano le persone che avevano aiutato e un bel piatto veniva recapitato fino a casa come ringraziamento.

Era anche quello un giorno di festa che spesso combaciava col capodanno. Un giorno in cui la carne abbondava e ci si riuniva in compagnia chiacchierando a lungo.

Michele era felice quando a casa c'erano anche gli altri parenti. Giocava coi cuginetti e ogni tanto si fermava ad ascoltare i discorsi dei grandi. 

In quelle occasioni, il tempo sembrava volare via ma, a sera, nel suo lettino, lo coglieva sempre un po' di malinconia, perché si avvicinava, sempre più, il giorno della partenza del padre.

Dopo aver sistemato il maiale e appese le salsicce alle “mazze”, nella stanza del forno, la mamma e la zia lavarono e misero a posto, tutte le cose che avevano adoperato e ripresero la solita vita. 

Nel frattempo, Rocco ne aveva approfittato per aiutare qualche giorno in campagna ed aveva dato una mano per finire di raccogliere le olive rimaste sugli alberi e fare un po' d'olio da conservare prima di partire nuovamente per la Germania. 

Nei giorni dopo capodanno, il tempo regalò delle belle giornate. Fredde, ma limpide e serene che fu un piacere lavorare tutti insieme in campagna. Michele e Nunzia si divertirono tanto a correre in mezzo alle poche reti che la mamma andava spostando di qua e di là per raccogliere i preziosi frutti, ma aiutarono anche come poterono. 

Mangiarono il pane con il formaggio seduti per terra e per loro fu una scampagnata in allegria con la famiglia, felici di avere accanto il papà che non avrebbero rivisto per tanti mesi. 

Finito il raccolto, Rocco si accordò col frantoio e un giorno prima dell'Epifania macinarono le olive. Michele, naturalmente, volle essere presente. Anche lui, in campagna aveva riempito il suo piccolo secchio, facendo la sua parte ed ora trovava giusto partecipare anche alla nascita vera e proprio dell'olio. 

Di mattina presto, suo padre era uscito a caricare la "tramoggia" e lui con la mamma, prima di raggiungerlo, passarono " arra petèhe" a comprare un pacco di biscotti e alcune birre da regalare agli operai del frantoio. 

Curioso com'era, al frantoio non stette fermo un minuto e tartassò di domande gli operai, che, incuriositi a loro volta da quel vispo bimbetto, lo presero a benvolere e gli spiegarono tutti i passaggi che stavano facendo. Ogni tanto lo mandavano a mettere un po' di sansa nella stufa e lui si sentiva importante nell'aiutare. In realtà non era la prima volta che andava al frantoio, ma vuoi per la presenza del padre, vuoi la curiosità dell'olio fresco, quella volta si sentiva più contento, più invogliato a sapere, a conoscere.

Dopo qualche ora, finalmente l'olio, cominciò a grondare giù nella vasca dai “fìscule” ben spremuti allineati nelle presse, e quel rivolo d'oro sembrava stonare col nero simile a sudiciume, intorno. L’operaio esperto, con un piatto di stagno, raccoglieva l'olio separandolo dall'acqua e riempiva man mano i vari recipienti che gli passava la mamma. Uno, due, tre...il profitto era stato eccellente e i genitori di Michele erano grati per quella provvidenza. Sul pane, l'olio caldo era qualcosa di indescrivibile e lo gustò con vero piacere. 

Tutte le sue fatiche erano state ripagate ed era davvero contento.

Il giorno delle Befana, Michele e Nunzia trovarono qualche caramella, delle noci e una tavoletta di cioccolata, vicino al cuscino. Naturalmente, i dolci erano sempre quegli stessi che aveva portato il papà dalla Germania, ma i bambini furono felici ugualmente. 

La cosa che rattristava Michele era, invece, la partenza di suo padre e quel giorno purtroppo, arrivò anche in fretta.

Come al solito, venne la macchina di “Pèppe Abbattiste”, il noleggiatore, a prenderlo fino a casa e caricarono le pesanti valigie dove la mamma aveva cercato d'inserire tante cose buone da mangiare. Giusto qualche provvista della loro terra natia per non fargli sentire tanto la nostalgia di casa.

Normalmente, a quel tempo, le stazioni ferroviarie pullulavano soprattutto di giovani mariti soli che partivano con le loro valigie pesanti e i cuori ancor più...

"Avanti, va, come t’àgge prummìse, la prossima vote ca torne, te porte che ‘mmève arra stazione... quanne torne ad Ahùste!"

“Avanti, va, come ti ho promesso, la prossima volta che torno, ti porto con me alla stazione...quando torno ad Agosto.”

"Sì, me ru dice sèmpe e na ru faije maije..."

“Si, me lo dici sempre e non lo fai mai…”

"Tu nan te ne ‘ncarecà e pò vide, ad Ahùste te porte. Mò, me raccumanne, faije sèmpe lu brave e scrìvime tanta lèttere, ca ije r’aspètte, va bbuone?"

“Tu non ti preoccupare e poi vedi, ad Agosto ti porto. Ora, mi raccomando, fai sempre il bravo e scrivimi tante lettere, che io le aspetto, va bene?”

Michele si strinse al collo del padre e si mise a piangere liberando le lacrime che aveva sempre cercato di trattenere. Ogni volta era sempre più brutto separarsi e la mancanza si faceva sempre più pesante man mano che cresceva.

Papà partì e Michele ricadde in una strana tristezza soprattutto quando sua madre smontò il suo bel presepe e ripose le belle palline di vetro, arrivate dalla Germania. 

Lei gli aveva chiesto di aiutarlo, ma non se la sentì e rimase in camera sua a leggere fumetti. Nunzia, invece, fu felice di aiutare la mamma a riporre con cura quegli oggetti tanto cari.

La malinconia di Michele andò scemando man mano che passavano i giorni e tornare a scuola e rivedere i compagni, lo aiutò a distrarsi. 

Dopo il Natale, i suoi amici, già pensavano al loro Carnevale, quello dei piccoli divertimenti per le strade.

Una mascherina di carta, qualche vecchio vestito e tanto baccano facevano a Carnevale, e le cose presero il verso di sempre…




Dalle Sirene alla sirena

 8° incontro - Dalle Sirene alla... sirena - prof. Franco Scarfiello

7° Incontro - 13/04/2022 - Prof. Franco SCARFIELLO 

" Dalle Sirene alla ...sirena"

L'argomento, brillantemente trattato dal Prof. Franco Scarfiello, ha preso lo spunto dall'urlo cupo, lugubre e lacerante delle sirene di allarme nella guerra tra Russia ed Ucraina che si combatte in questi giorni e quindi di tragica attualità.
Ovviamente il relatore è partito dalle Sirene " classiche" della mitologia greca per fare un rapido excursus delle varie interpretazioni simboliche che si sono succedute attraverso i secoli fino ai nostri giorni.
Così si è compreso che il mito delle Sirene ha sempre esercitato un fascino particolare e di volta in volta è stato adattato e interpretato dalle varie fantasie dei popoli,  perchè rispondesse alle loro esigenze di carattere più vario ( religioso, etico, culturale, propagandistico) e quindi di proiezione delle proprie aspirazioni .
Pertanto il mito delle Sirene ha conosciuto nei secoli tante variazioni, spesso negative e distruttive, come nella cultura cristiana. 
La Sirena dei nostri giorni, quella che quotidianamente ascoltiamo in TV nei " reportage" di guerra, come quelle dei Carabinieri o dei Vigili del fuoco o semplicemente quella dei vari orari di lavoro ( come fabbriche, scuole, ecc.) nasce nel 1819 quando un accademico francese ideò un congegno in grado di emettere il classico suono che noi tutti oggi conosciamo e che chiamò " Sirena" in omaggio alle Sirene del mito greco.
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"100 anni ma non li dimostra"

 5° Incontro - 10/12/2022 - Festeggiamo insieme i 100 anni di Donato Mancuso

                             

                                         " 100 anni ma non li dimostra"


L'Uni-Tre di Oppido Lucano ha aderito, con spirito collaborativo, alla manifestazione indetta dall'Amministrazione Comunale in onore del socio Donato Mancuso per festeggiare il suo centesimo compleanno. 

La manifestazione si è tenuta nel Teatro Obadiah ed ha visto l'intervento di un numeroso pubblico; molti erano i soci dell'UniTre.

L'assessore Nerina Orlando  ha introdotto la serata salutando il festeggiato ed i presenti ed ha passato subito la parola al Sindaco Mirko Evangelista. Il Sindaco ha tratteggiato la figura di Donato, ricordando la sua partecipazione all'ultima guerra che ha raccontato nel bel libretto che stasera viene qui presentato, il ritorno in Patria e la ripresa della vita lavorativa nell'azienda agricola di famiglia. Lo ha additato ad esempio della nostra comunità soprattutto dei giovani ai quali trasmettere i valori morali e civili espressi nella sua lunga e intensa vita. La cittadinanza tutta, che egli è lieto di rappresentare, si stringe intorno a Donato e alla sua famiglia, ringraziandolo per l'esempio dato e che ha onorato il nostro paese.

Prende la parola il Presidente dell'UniTre Giuseppe De Felice, il quale ricorda la partecipazione attiva alla vita dell'Associazione , i molti interventi sulla sua esperienza di combattente durante la seconda Guerra Mondiale e sul rapimento del nonno Rocco Mancuso nel 1860 ad opera dei briganti.

L'UniTre di Oppido ha inteso manifestare la stima e l'affetto a Donato con la pergamena che gli viene offerta questa sera, nella quale è espresso in poche parole l'essenza della sua lunga vita, con il dono alla Patria dei suoi anni giovanili e alla Comunità di Oppido dell'impegno di buon cittadino come Assessore Comunale nell'Amministrazione del Dottor De Rosa e come consigliere della Banca locale.

 Sulla pergamena è scritto: " Per la frequenza assidua e partecipe alle attività dell'Associazione, per le lezioni tenute, ricche di saggezza maturata nella sua lunga vita intensamente  vissuta con la drammatica esperienza della guerra, la partecipazione alla vita politica e sociale del paese, il lavoro, la cura della sua famiglia. Con riconoscenza ed affetto"

Si avvicinano al palco la segretaria dell'UniTre  Rosanna Cimadomo che offre a Donato un omaggio floreale e gli mette al petto una fascia-ricordo dei suoi 100 anni e Gaetano Palumbo, pure dirigente della medesima Associazione, che offre la pergamena e legge una poesia scritta da Rosanna per Donato, da lei intitolata " Pensieri in rima per condividere la gioia di un giorno speciale". La poesia di Rosanna viene allegata a questa relazione.

E' seguito l'intervento del sig. Pasquale Ciccone, nipote di Donato, portavoce degli altri numerosi nipoti del ramo della famiglia stabilitasi nel foggiano, per porgere gli auguri allo zio. Con tono molto piacevole e scherzoso ha elogiato Donato per la sua laboriosità mai venuta meno fino ad oggi, tanto che  "risulta perfino superflua e non giustificata la pensione che riceve". Pasquale è stato Funzionario dell'INPS e lo zio non si è mai rivolto a lui per informazioni sul pensionamento come molti fanno: come anticiparne l'attribuzione, come risparmiare sui contributi, ecc. Ha lavorato sempre con serenità e fiducia nel domani, esempio da mostrare ai giovani di oggi, così scoraggiati e delusi.

Pasquale ha ricordato l'attenzione di Donato per le sue sorelle che egli tutte le sere, al ritorno dalla campagna, mai trascurava di recarsi a salutare.  Ha infine lodato la poesia di Rosanna che nel suo scritto ha saputo condensare la vita di Donato, i suoi sentimenti, la considerazione e l'affetto che riceve dai paesani.

Si avvicina al palco il Dottor Domenico Mastandrea, Vice Presidente della locale Banca di Credito Cooperativo, i cui dirigenti ed amministratori non hanno voluto mancare di porgere gli auguri a Donato e di offrirgli una targa-ricordo per questa importante ricorrenza.

Il figlio Michele ha iniziato il suo intervento ringraziando il Sindaco e l'Amministrazione Comunale per aver organizzato questa serata in onore di suo padre Donato, l'UniTre per l'attiva partecipazione all'evento, tutti i presenti che hanno inteso condividere con la sua famiglia questo felice momento. Egli ha voluto ripercorrere schematicamente la vita di Donato suddividendola in tre tappe fondamentali : l'infanzia e l'adolescenza con l'espulsione dalla scuola per non essersi vestito da Balilla e la giovinezza con la partecipazione alla guerra. Il secondo momento con il ritorno in Patria, la creazione della famiglia e l'attività lavorativa intensa, riportando in proposito quanto affermava il fratello Rocco Donato " con Donato non si può lavorare , non si ferma mai, nemmeno per mangiare". Questo gli ha consentito il possesso di una bella azienda agricola e ad assicurare il benessere della famiglia. Il terzo momento, gli ultimi 10 anni, è stato caratterizzato dalla frequenza dell'UniTre che gli ha consentito di non lasciarsi andare,  salvandolo dall'isolamento nel quale gli anziani spesso si rinchiudono. E' stato invogliato a leggere molto, a scrivere i suoi ricordi, a parlarne in pubblico, non solo all'UniTre ma anche nelle scuole ed in manifestazioni pubbliche alle  quali era invitato. Michele si è commosso quando ha ricordato la mamma, assente perchè ammalata e la vita familiare. I suoi genitori hanno trascorso insieme 71 anni di un matrimonio felice, i figli non li hanno mai sentiti litigare, mai tra di loro è corsa una parola offensiva, sono vissuti l'uno per l'altro in perfetta armonia. Donato, nella sua bella poesia " Cosa rimane" inserita nel suo libretto di memorie, ha esaltato l'amore concludendo con le parole "...ogni maggior gioia è quella, nella vita e oltre la morte: l'Amore". Sono stati due genitori esemplari, Michele si è augurato di essere per la figlia Anna così come suo padre è stato per lui. Ha elogiato di nuovo l'UniTre per le opportunità offerte a suo padre e Rosanna Cimadomo per la bella poesia che gli ha dedicato ed ha chiuso il suo intervento ringraziando di nuovo tutti.

A questo punto il Vice Sindaco Michele Gioiello ha offerto a Donato la targa che l'Amministrazione Comunale gli ha dedicato.

A conclusione della bella serata ha preso la parola Donato e anch'egli ha rivolto parole di ringraziamento al Sindaco, ai soci dell'Associazione presenti ed assenti e a tutti gli intervenuti alla sua festa. Verso l'UniTre ha usato parole che hanno gratificato tutti coloro che in questa Associazione lavorano con passione e profonda dedizione, intendendo per cultura l'attenzione e la cura per le persone, sopratutto le più anziane. Donato ha detto: quando ho iniziato ad abbandonare il lavoro più pesante, rischiavo di chiudermi nell'isolamento e nel silenzio , con la frequenza all'UniTre " sono uscito alla luce del sole". Quale maggior riconoscimento e lode per tutti, dirigenti e soci dell'Associazione!

Su sollecitazione del Prof. Nino Cervellino, intervenuto per omaggiare il festeggiato, Donato ha ricordato episodi di guerra da lui vissuti, chiudendo il suo intervento ringraziando e salutando tutti. 

E' seguito un ricevimento offerto dalla famiglia del festeggiato a conclusione di un indimenticabile giorno di festa di tutta la comunità di Oppido.



Pensieri in rima, per condividere la gioia di un giorno speciale


L'Unitre di Oppido Lucano è in festa per il suo Decano:

compie oggi 100 anni 

Donato Mancuso, il nostro Socio più Anziano.

Una bella ricorrenza da celebrare,

e, mettendo da parte i nostri affanni,

 siamo tutti qui riuniti a festeggiare.


Compie ben 100 anni, età venerabile,

il nostro zi Tuccio, persona molto amabile!

Che dirgli in questa felice circostanza?

Gli auguriamo buona salute e affetto in abbondanza!

100 anni sono un traguardo da ricordare

e tutti insieme li abbiamo voluti solennizzare.


Auguri, Donato, buon compleanno!

Possa tu vivere a lungo, ogni anno

in buona salute, gioia e serenità

con la tua famiglia e nella comunità, 

col rispetto di quanti incontri per la via,

poichè doni a tutti sorrisi e parole di  cortesia.


Se della sua vita volessi parlare

non so quanti volumi dovrei approntare...

Il mio, però, è solo un semplice, ma sentito omaggio

al nostro Donato, all'uomo saggio, 

che," senza essere poeta nè scrittore",

riesce sempre a toccarci il cuore.


Si prodiga per tutti, parenti ed amici,

che  qui a festeggiarlo  sono felici.

Da tutti benvoluto, apprezzato e stimato

perchè socievole, sempre disponibile e garbato.

Il Signore con una lunga vita l'ha voluto premiare

e, come esempio, a noi l'ha voluto indicare.


Che cosa sia l'ozio, Donato non lo sa,

perchè si dedica sempre a tante attività.

E' sempre in moto, da mattino a sera

e non lo ferma nè il caldo, nè la bufera!

Ancora in campagna da solo, coraggiosamente,

continua a lavorare costantemente.


Le sue memorie scritte continua a curare,

perchè i posteri lo possano conoscere e ricordare.

Con i suoi racconti di guerra ci ha affascinato

e la sua memoria ferrea abbiamo apprezzato.

Tripoli, Tunisi, Tobruck: la seconda guerra mondiale

da lui vissuta nell'Africa settentrionale.


Ferito alla mano... poi al piede...

curato prima in Africa e poi rimpatriato...

dopo la convalescenza di nuovo in missione

in diversi centri fuori Regione...

Il 4 dicembre del '45 finalmente congedato,

la vita militare per lui era terminata!


Tornato a Oppido  felicemente si è sposato

con Angelina a cui vuole tanto bene

e dopo settant'anni sono ancora insieme.

In breve tempo la famiglia si è allargata:

 tre meravigliosi figli sono arrivati

e con il loro affetto costante

hanno allietato la vita in ogni istante.


Con la moglie è marito affettuoso,

con i figli e i nipoti padre e nonno disponibile e premuroso.

Purtroppo oggi la sua Angelina,

da tempo in ospedale, non può essergli vicina,

ma i figli Maria, Michele e Franco

tornati a Oppido, sono anche oggi al suo fianco.


Donato si prodiga per tutti: parenti,

amici e conoscenti.

Per il suo carattere socievole, aperto e gioviale

da chiunque incontri si fa apprezzare.

La sua disponibilità abbiamo potuto verificare

e pubblicamente lo vogliamo ringraziare.


Insieme ai suoi parenti, amici e conoscenti,

da Oppido e da ogni dove provenienti,

qui riuniti per festeggiare,

i nostri più sentiti auguri vogliamo formulare

per il traguardo centenario oggi tagliato

e perchè il cammino sia continuato.


Donato, in questa festa preparata per te,

 non poteva mancare il saluto e l'augurio dell'UNITRE.

Dal profondo del cuore vogliamo esternare,

da parte di tutti i Soci, un augurio particolare:

possa tu vivere a lungo, in buona salute e serenità

circondato dall'affetto che tutta la famiglia ti dà.


100 anni  sono davvero una bella età,

e, sinceramente, tutti ci vorremmo arrivare...

ma con il tuo dinamismo e la tua lucidità!!!


Con affetto e stima

                                                                                                          UNITRE  OPPIDO LUCANO


Oppido Lucano, 10 dicembre 2021