venerdì 29 aprile 2022

Religione e culto dei defunti nella cultura classica

10° incontro -27 aprile 2022 -  prof. Rocco Basilio - Religione e culto dei defunti nella cultura classica


  IL CULTO DELLE DIVINITÀ E IL DESTINO DELL’UOMO DOPO LA MORTE NELLA CULTURA   GRECO-LATINA


L’argomento di questa sera sembrerebbe a prima vista un po’ lugubre, però ci offre l’occasione di conoscere le pratiche religiose osservate dalle antiche popolazioni greche e latine per circa 1200 anni.

La trattazione è divisa in due parti: la prima riguarderà l’origine delle divinità e il loro culto secondo Esiodo, vissuto circa 800/700 anni a.C.; la seconda, la destinazione dell’uomo dopo la morte secondo Omero, VIII sec. A.C, Platone, Virgilio ed altri autori che citerò in seguito.

L’argomento, anche se poco allegro, ci offre l’opportunità di scoprire che certe paure dell’Aldilà degli antichi erano uguali a quelle che abbiamo noi oggi. Scopriremo come loro si siano sforzati di allontanare, mitigare o rendere meno angosciante l’idea che oltre l’esistenza su questa terra non ci fosse più nulla.

La prima constatazione è che gli antichi popoli pagani non avevano testi scritti, suggeriti agli uomini da Profeti o da Mosè, come era avvenuto con i testi sacri tramandati dalla tradizione ebraico-cristiana: l’antico Testamento, la Bibbia, i Vangeli per i cristiani e il Corano per i Maomettani.

              ORIGINE  DEL MONDO

Gli autori antichi, come il già citato Esiodo, si sono dovuti inventare l’origine della terra, delle divinità ed anche la destinazione dei defunti dopo la morte. 

Secondo il racconto biblico Dio creò il mondo dal nulla in sei giorni.

Esiodo nella sua Teogonia afferma che “in principio vi fu il Caos”.

Per noi caos significa disordine, confusione; per Esiodo il termine caos voleva dire spazio aperto, profondo e il mondo non è stato creato, ma si è formato per un processo evolutivo, per una sua forza autonoma. Dal Caos poi sono nati EREBO (TENEBRA) e NOTTE. Questi due elementi unendosi hanno dato vita ai loro contrari: ETERE, la parte più alta e luminosa dello spazio, e GIORNO.

Un secondo elemento primigenio per Esiodo è la TERRA, che fa nascere, senza unirsi con altri elementi, il CIELO stellato, i MONTI e il MARE. L’ultimo elemento primigenio è EROS che non deriva da nessuno, ma è stato inteso come una forza che agisce per favorire gli accoppiamenti e, quindi, la trasmissione della vita.

Tralascio tutto il complesso di altre discendenze che riguardano la nascita delle numerose divinità. La divinità che inizialmente regge il mondo è URANO; dalla sua unione con REA nascono diversi figli che lottano tra di loro fino a quando ZEUS li elimina tutti e viene riconosciuto Re di tutti gli dei Superi, cioè le divinità che abitano sul monte Olimpo in Grecia dove sorge una grandiosa e lussuosa reggia. In quella dimora i vari dei dormono, mangiano e osservano tutto quello che succede sulla terra. Il re degli dei, Zeus, deve stare sempre vigile per tenere a bada le iniziative dei suoi nemici. I più temibili erano i Titani, creature dal fisico possente e dalla forza enorme che la usarono, sempre secondo quanto afferma Esiodo, per mettere uno sopra l’altro i monti della Grecia per raggiungere l’Olimpo dove regnava ZEUS. I Titani furono sconfitti e relegati per sempre nel TARTARO, un luogo profondissimo al centro della terra; tanto profondo che distava dalla superficie della terra quanto essa distava dal cielo. Per avere un’idea di tale profondità, se vi si faceva cadere un’incudine di bronzo, questa avrebbe impiegato ben nove giorni per raggiungere il fondo del Tartaro.

Gli antichi Greci erano politeisti, cioè adoravano molti dèi che erano tutti immortali, ma erano soggetti alle passioni e ai sentimenti come gli uomini, intervenivano nelle vicende umane in base alle proprie simpatie e antipatie. Erano permalosi e punivano le città che non gli tributavano i dovuti onori. Non mancavano scene di gelosia come avvenne durante il banchetto per lo sposalizio del re Peleo con la ninfa Teti, futuri genitori dell’eroe Achille. In quella occasione furono invitati tutti gli dei eccetto ERIS, dea della discordia, la quale per vendicarsi lasciò cadere sulla mensa, attorno alla quale sedevano tutti le altre divinità, una mela d’oro con la scritta “alla più bella”. Scoppiò una lite tra le dee Giunone, Atena e Venere perché ciascuna si credeva la più bella. Poiché nessuna delle tre cedeva si rivolsero a Giove il quale  nominò come giudice Paride, uno dei 50 figli maschi del Re di Troia, Priamo. Le dee in lizza gli promisero Giunone il potere, Atena la sapienza e Venere la donna più bella allora esistente, cioè Elena la moglie di Menelao, re di Sparta. La promessa si avverò e fu la causa che scatenò la guerra di Troia tra Greci e Troiani. Inoltre i vari dei amavano e tradivano con molta facilità e disinvoltura le loro mogli. Non parliamo, poi, di Zeus che praticava l’infedeltà in maniera spudorata. Si nutrivano con cibi raffinati come  il nettare, simile al miele e la loro bevanda era l’ambrosia. Anche loro, però, erano soggetti al FATO, il destino che li guidava e contro il quale erano impotenti. Il numero degli dèi era ampio ma i principali erano una decina. Poi c’erano altre divinità minori come le Ninfe e le nove Muse che nella cultura greco-latina erano le protettrici e le ispiratrici della poesia e dell’arte in genere.

Ricapitolando: il capostipite degli dèi è CRONO; da lui discendono tre figli divini: ZEUS, NETTUNO, PLUTONE. Questi tre per sorteggio si dividono le zone sulle quali regnare: a Zeus toccò il cielo, a Nettuno il mare e a Plutone gli Inferi.

L’iconografia ci ha tramandato anche le immagini di questi tre dèi:

ZEUS ha la barba e regge nelle mani il tuono e i fulmini; NETTUNO con il tridente, un forcone con tre punte e PLUTONE con la faccia accigliata perché non era contento della parte che gli era toccata nel sorteggio. Infatti egli regnava nell’Ade senza immischiarsi nelle  vicende dei viventi che non gli tributavano nessun culto. E non aveva rapporti neanche con le altre divinità. Solo una volta ebbe bisogno del consenso del fratello Zeus e fu quando per prendere moglie dovette rapire Persefone, figlia di Demetra, sorella di Zeus.

Zeus diede il suo assenso a queste condizioni: Persefone doveva vivere quattro mesi con lui nell’Ade e otto mesi con la madre Demetra sulla terra.

A proposito del rapimento di Persefone (Proserpina per i latini), il poeta latino Claudiano ( 370- 404 d.C. ) riferisce che il dio Plutone sbucò dal mare sopra un carro al quale erano aggiogati quattro mostruosi cavalli neri, dalle briglie intrise di sangue, dal respiro mortifero e dalla bava infetta che guastava il suolo sul quale cadeva. Anche i loro nomi incutevano paura:1) Orfneo = tenebroso; 2) Ctonio = infernale; 3) Nitteo = notturno; 4) Alastore = punitore.

Nella reggia infernale di Plutone circolavano tanti personaggi, ciascuno con un proprio compito. Il dio Ermes viveva nell’Olimpo, ma aveva l’obbligo di accompagnare le anime dei defunti nell’Oltretomba. Qui lo aspettava Caronte che con la sua barca trasportava le anime sulle acque dell’Acheronte/Stige che formava la palude infernale; vi era anche Cerbero, il cane con tre teste, che sorvegliava i defunti per non farli fuggire e per non far entrare i vivi. Per ammansirlo gli offrivano la loffa, una specie di focaccia al miele di cui era ghiotto.

Erano presenti anche tre giudici infernali molto severi e inflessibili come erano stati sulla terra quando erano vivi; Radamanto, re di Creta; suo fratello Minosse ed Eaco, re di Egina, isola distante da Atene una cinquantina di Km. Il loro ruolo di giudici variava a seconda degli autori che ne parlano. Per Platone Minosse fungeva da giudice supremo, Eaco giudicava gli Europei e Radamanto gli Asiatici e, secondo altri autori, i defunti che popolavano le Isole dei Beati.

Per infliggere le pene alle anime trovate colpevoli i giudici infernali si servivano di aiutanti molto spietati come le Erinni greche, le FURIE per i Romani. A queste si aggiungevano, secondo il filosofo greco Platone, altre figure con compiti di carcerieri e guardiani. In più c’era un demonio che cambiava velocemente forme passando dalle fattezze di una bella donna a quelle di un bue, di un mulo, di un cane. Tra tutti spiccava la figura inquietante di Eurinomo, un demonio che nell’Ade divorava le carni dei morti, lasciando loro solo le ossa.

Anche nell’Eneide di Virgilio compaiono mostri di ogni genere: arpie, chimere, centauri. Un altro poeta latino, Silio Italico, aggiunge avvoltoi e uccelli notturni: gufi, civette, barbagianni dalle penne grondanti sangue, che avevano i nidi sopra un enorme tasso. Con tutta questa bella compagnia il mondo dell’aldilà appare piuttosto lugubre. Stando a quanto ci tramanda Omero nell’Odissea, le anime dei defunti si trovavano in uno stato di grigia infelicità. Ecco come il poeta le descrive in due passi dell’ODISSEA (XI. 14-640 passim): su indicazione della maga Circe, Ulisse giunge nel regno dei Cimmeri, un popolo creato dalla fantasia omerica, immerso costantemente in un mare di nebbia nel quale si muovono le anime dei trapassati. Il viaggio fu voluto da Ulisse per incontrare la madre Anticlea e l’indovino Tiresia che gli avrebbe dato notizie della moglie Penelope, del figlio Telemaco e del padre Laerte. Ma prima di incontrare le anime dei trapassati doveva compiere un rito senza il quale non avrebbe incontrato nessuna anima. Doveva scavare una fossa quadrata con i lati lunghi un cubito, (Il cubito ebraico misurava cm 44,45, quello greco cm 52.5), nella quale versare un’offerta per i defunti: latte, miele, vino dolce e acqua, il tutto cosparso di farina. In più una supplica con la promessa che, se fosse tornato ad Itaca sano e salvo, avrebbe sacrificato una vacca sterile e al solo indovino Tiresia un montone nero, il più bello del suo gregge. Dopo questo preambolo sgozzò gli animali che aveva portato con sé raccogliendo il sangue nella fossa.

Accorsero le anime dei defunti, ma Ulisse con la spada sguainata non li fece avvicinare. Rivide alcuni compagni della guerra contro Troia, la madre Anticlea  e l’indovino Tiresia di Tebe, che così parlò a Ulisse: “ Divino figlio di Laerte… perché mai hai lasciato la luce del sole/ e sei giunto a vedere i morti e questo luogo senza gioia?/ Ma allontanati dalla fossa, riponi la spada affilata, perché beva il sangue e ti dica il vero”.

Tiresia predice ad Ulisse tutte le peripezie che dovrà affrontare prima di rientrare ad Itaca. Gli suggerisce di tenere lontano dalla fossa i defunti e lasciare che si accosti solo la madre. E così avvenne.

Appena la madre ebbe bevuto il sangue, riconobbe il figlio e così parlò: “Figlio mio, perché sei giunto nella tenebra oscura // mentre sei ancora in vita; vederla per i vivi è difficile”.

Dopo il lungo colloquio Ulisse tentò di abbracciarla.” Tre volte provai, il mio animo mi spinse ad abbracciarla, // tre volte mi volò via dalle mani simile ad un’ombra o a un sogno”. Il colloquio continua e la madre spiega al figlio cosa succede dopo la morte: ”Quando si muore i nervi non tengono più la carne e le ossa,/ ma l’onda violenta  del fuoco ardente le annienta…/ l’anima se ne vola via fluttuando come un sogno”.

Ulisse dopo aver incontrato altri personaggi vide l’ombra di Achille al quale ricordò le sue eroiche imprese di guerriero, ma l’ombra gli rispose: “Non ammorbidirmi la morte, illustre Odisseo, vorrei vivere e far da servo a uno qualsiasi…piuttosto che regnare sull’intero mondo delle ombre defunte”. Dopo di che se ne andò a grandi passi sul prato di asfodeli, fiore per i morti nella cultura greca.

Il racconto prosegue con la descrizione di altri defunti: Tantalo che cercava di bere senza riuscirvi, Sisifo che spingeva un enorme macigno verso la cima di un colle, che poi scivolava giù; Eracle  (Ercole per i latini) che continuava ad andare a caccia, come se fosse vivo, sui prati di asfodeli… mentre trascinava il cane Cerbero per condurlo fuori dall’Ade.

Ovviamente ci sono molti altri episodi che tralascio per delineare, sia pure brevemente, la tradizione religiosa nella cultura della Roma antica.

Anche presso i Romani la visione dell’aldilà viene descritta dal poeta Virgilio nel sesto libro dell’Eneide. Enea, personaggio dal quale deriva il titolo del libro, fuggito da Troia dopo che la città fu distrutta dai Greci, giunge con i suoi compagni a Cuma in Campania. Qui si reca dalla Sibilla, una sacerdotessa del dio Apollo, la quale aveva il dono di prevedere il futuro; costei doveva accompagnarlo nel regno dei morti per incontrare il defunto padre Anchise. La Sibilla abitava in una oscura e profonda grotta presso il lago Averno, ritenuto l’ingresso nel mondo infero. Una volta disceso nell’Ade, guidato dalla Sibilla, giunge nel punto in cui la strada si biforca: a destra si andava nei Campi Elisi, sede della anime buone, a sinistra nel Tartaro dove venivano puniti i malvagi.

L’ingresso del Tartaro era situato ai piedi di una grande rupe alla cui sinistra si ergevano tre cerchi di possenti mura intorno alle quali scorreva il fiume di fuoco Flegetonte. Vi era una enorme porta fatta con un materiale duro come il diamante e così robusta da non poter essere distrutta da nessuna forza, neanche dagli dei. La custodia della porta è affidata a Tisifone, una delle tre Furie (Aletto e Megera le altre due), coperta da un mantello insanguinato. Si udivano risuonare lamenti, feroci percosse, stridore di ferro e di catene trascinate. Enea spaventato chiede alla Sibilla da chi provengono i lamenti e lo stridore delle catene. Ella gli spiega come è composto questa parte degli Inferi. Qui il giudice dei defunti è Radamanto che ascolta la confessione dei crimini commessi e infligge le punizioni, mentre Tisifone li sferza minacciandoli con i serpenti che tiene nella mano sinistra. Appena si spalanca la porta, nel vestibolo siede un’Idra immensa con 50 bocche, mostro mitologico, una specie di drago in grado di uccidere una persona con il solo respiro o con il suo sangue.

In questa parte dell’Ade vengono puniti, come in Omero, tutti coloro che si erano ribellati agli dei. Ma non era questo il luogo che Enea doveva visitare, infatti la Sibilla lo guida verso la porta di destra che conduceva ai campi felici: una pianura coperta di erbe profumate e di alberi rigogliosi, illuminati da un sole e luce color porpora. In questa ampia pianura ci sono innumerevoli anime di trapassati che conducono un’esistenza facendo più o meno le stesse azioni che facevano sulla terra quando erano vivi. Sono le anime degli eroi, dei poeti, dei suonatori di cetra e dei devoti servitori delle divinità. Infine vede, in una valle verdissima, il padre Anchise che passava in rassegna la sua discendenza futura che avrebbe dato lustro alla storia di Roma. L’incontro tra padre e figlio è molto commovente ed anche Enea, come Ulisse, cerca per tre volte di abbracciare il padre senza riuscirci perché la sua figura era solo ombra.

Da questi episodi possiamo dedurre che anche per gli antichi latini e greci vi era una distinzione tra il corpo fatto di carne ed ossa ed una forma di anima che rappresentava la figura della persona defunta. Ma questi sono argomenti che riguardano la filosofia.

Tornando al culto delle divinità, senza entrare nei dettagli, anche la società romana adorava gli stessi dei del popolo greco, ovviamente con nomi latini, ed era molto ricca di altre divinità venerate sia dalle singole famiglie che dai collegi sacerdotali collegati direttamente al potere politico e militare. Nelle famiglie vi era il culto degli antenati, i Penati, e dei Lari protettori del focolare domestico. Queste divinità erano venerate con cerimonie private dai singoli capifamiglia. Nella sfera pubblica le cerimonie erano praticate invece da persone che facevano parte di collegi sacerdotali alle dipendenze di un capo, il Pontefice Massimo, che si serviva di altre persone incaricate di eseguire i sacrifici in onore degli dei, soprattutto di GIOVE e di MARTE, dio della guerra. Tra le divinità femminili c’era Giunone, moglie di Giove, Cerere protettrice delle colture agricole, Venere, dea dell’amore e tante altre. I Romani per quanto riguarda le divinità oltre a quelle della loro tradizione accoglievano anche altre divinità che erano venerate dai popoli che sottomettevano. A Roma fu costruito un tempio chiamato PANTEON nel quale erano inclusi tutti gli dei venerati anche dai popoli vinti. I Romani erano molto superstiziosi e i capi militari non intraprendevano nessuna campagna militare senza aver prima interpellato coloro che sapevano interpretare la volontà delle divinità. La figura profetica più consultata era La Sibilla che risiedeva in una grotta presso Cuma. A proposito dei responsi dati dalla Sibilla, poiché non sempre si avveravano, i richiedenti tornavano a lamentarsi con la Sibilla la quale si giustificava dicendo che il responso era stato interpretato in maniera errata. Infatti bastava spostare una virgola  ed il senso  cambiava  radicalmente: Ibis, redibis, non morieris in bello cioè “ andrai, tornerai, non morirai in guerra. Se si spostava la virgola la frase si leggeva: ibis ,redibis non,  morieris in bello che si traduce: andrai, non tornerai, morirai in guerra. Un altro oracolo molto famoso e consultato era quello del tempio di Apollo a Delfi in Grecia. In questo tempio la Pizia rilasciava i responsi ispirata dal dio Apollo. Sul frontone del tempio era incisa in greco antico la seguente frase del filosofo Socrate: gnothi seauton, conosci te stesso, che era un chiaro invito alla riflessione interiore. Ma vi erano anche altri gruppi di esperti come gli Aruspici che studiavano le viscere degli animali sacrificati e gli Auguri che interpretavano il volo degli uccelli. A proposito di questi esperti il più famoso oratore latino, Cicerone, con ironia diceva: “non so come non scoppiano a ridere quando si incontrano due  Aruspici “  sapendo che vendevano solo illusioni. Il sacrificio degli animali era strutturato con cerimonie ben precise, attuate da persone iscritte nei collegi sacerdotali, con l’intento di assicurarsi il favore degli dei ed eventualmente calmare la loro ira. Gli dei infatti gradivano molto il fumo delle viscere bruciate mentre gli addetti ai sacrifici banchettavano con le parti migliori degli animali sacrificati!

Per concludere, il culto delle divinità è stato praticato nell’impero romano fino all’anno 380 d.C., anno in cui l’imperatore Teodosio I° il Grande con l’Editto di Tessalonica, attuale Salonicco, esortava i popoli a lui sottomessi ad abbracciare la fede dell’apostolo Pietro. Con quell’editto il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’impero romano.

I TEMPLI GRECI

I GRECI nei territori in cui si insediarono hanno lasciato un patrimonio artistico veramente eccezionale, costituito da vasi dipinti, statue in bronzo come quelli di Riace e diversi templi dislocati in Sicilia, Campania e Metaponto. 

I templi costruiti nella Magna Grecia ricalcavano tutti il più grande  e meraviglioso tempio costruito ad Atene, il Partenone, iniziato nel 445 a.C. e terminato nel 438, dopo otto anni di lavoro. Era dedicato alla dea Atena (Minerva per i Romani) raffigurata da una statua in oro e avorio alta 12 metri. Il tempio aveva otto colonne

nel frontale e 18 ai lati, mentre i templi di Selinunte (Castelvetrano), della Valle dei templi di Agrigento   e di Paestum (Nettuno, Hera e Atena) avevano 6 colonne nel frontale e 15 ai lati, risalenti alla prima metà del V sec. A.C. 

Questi templi testimoniano ancora oggi la grandezza e la raffinatezza raggiunta dall’arte greca al servizio delle divinità pagane.


OPPIDO  LUCANO, 27 APRILE 2022 (Università  terza età) 

                                                                                                                                 Rocco A. Basilio

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