sabato 23 aprile 2016

Mercoledì 27 APRILE

alle ore 19.00

presso la Biblioteca Comunale

il Prof. Giuseppe COVIELLO

terrà la seguente conferenza:

“Il castello di Lagopesole e Federico II”





Gli iscritti e tutte le persone interessate sono invitati.


venerdì 22 aprile 2016

26° INCONTRO –20 APRILE 2016- Prof. Rocco BASILIO
Dante: Divina Commedia, Inferno, Canto 33°
Lettura e commento

Il prof. Rocco Basilio ha eseguito la lettura e il commento del 33° canto dell’Inferno dantesco, appassionando l’uditorio che ha seguito con la massima concentrazione. In apertura del canto Dante si trova nella ghiacciaia del Cocito, nel nono cerchio, dove sono puniti i traditori della patria e degli ospiti. Già nella conclusione del canto precedente, egli aveva scorto due dannati immersi in parte nel ghiaccio, uno dei quali addentava la nuca dell’altro. Sono il conte Ugolino della Gherardesca e l’arcivescovo Ruggieri di Pisa, due figure storiche legate alle vicende politiche di Pisa: il conte, di origine ghibellina, era alleato con i guelfi – di qui il suo tradimento- per interessi economici e di difesa dei suoi territori; suo avversario era l’arcivescovo, intorno al quale si erano radunati gli altri nemici di Ugolino. In seguito a una rivolta popolare, nel 1288, il conte viene catturato e chiuso nella Torre della Muda con i suoi figli e nipoti. La vicenda narrata dal conte inizia con un sogno dello stesso in cui compare l’Arcivescovo Ruggieri intento in una caccia al lupo. L’animale, insieme ai suoi cuccioli, è inseguito e attaccato dalla muta di cani dell’ecclesiastico, ed è simbolo del conte stesso, tradito e catturato insieme ai figli. Ugolino, una volta risvegliatosi, sente i figli piangere per la fame. Nei versi successivi il conte riprende la narrazione: sente che la porta della torre viene inchiodata, imprigionandoli definitivamente. Ugolino, per nascondere il dolore ai figli in modo da evitar loro ulteriori sofferenze, non risponde alle loro domande e richieste per un giorno intero e una notte. Guardando poi il loro volto emaciato, riconosce il suo aspetto e in un momento di furore si morde le mani. I figli interpretano il silenzio ed il gesto del padre come segno della sua fame e offrono di farsi mangiare: “tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia” Il conte, come risvegliatosi dal torpore indotto dal dolore, consola i figli. Ma nei giorni successivi è costretto ad assistere alla morte di ognuno di loro in un susseguirsi straziante di sofferenze, che culminano con la morte del conte.
Concluso il drammatico racconto, da cui emerge l’umana figura di Ugolino, testimone impotente della scomparsa dei figli, Dante poeta ritorna alla situazione iniziale: il dannato, che ha ormai perso la sua umanità, furioso e pieno di rabbia nei confronti del suo traditore:
“Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ‘l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti”.
Nei versi successivi Dante rivolge un’invettiva contro Pisa, “vituperio de le genti”. Il poeta invoca la distruzione della città, sdegnato dalle lotte tra fazioni. Dante e Virgilio giungono nella Tolomea, una vasta landa ghiacciata in cui sono conficcati i dannati puniti quali traditori degli ospiti, tra cui, celebri all’epoca per l’efferatezza dei loro delitti, frate Alberigo, uno dei capi guelfi di Faenza, che avendo alcune discordie con suoi parenti, nel 1285, il 2 maggio, decise di invitarli a pranzo alla fine del quale li fece uccidere dai servi nel momento in cui venne portata la frutta; da qui l’espressione proverbiale “siamo alla frutta” che è un’allusione alla fine prossima della vita e Branca Doria, appartenente ad una nota famiglia ghibellina genovese, che tradì e uccise il suocero Michele Zanche. Proprio per questo nei versi finali Dante rivolge una nuova invettiva contro i genovesi per la loro malvagità e nuovamente si augura la loro fine.
“Ahi Genovesi uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”
L’attento pubblico ha seguito con interesse lo svolgersi delle vicende tributando un caloroso applauso finale all’oratore.

D.M.

martedì 19 aprile 2016

Mercoledì 20 aprile

alle ore 19.00

presso la Biblioteca Comunale


Dante: Divina Commedia

Inferno

Canto  XXXIII

Lettura e commento
a cura del

 Prof. Rocco BASILIO






Gli iscritti e tutte le persone interessate sono invitati.


martedì 12 aprile 2016

Mercoledì 13 Marzo

alle ore 19.00

presso la Biblioteca Comunale

la Dott.ssa Giuseppina Masotti   

terrà la seguente conferenza:

“Le malattie della tiroide”





Gli iscritti e tutte le persone interessate sono invitati.


venerdì 8 aprile 2016



PROGRAMMA VIAGGIO ISTRUZIONE UNITRE DEL 10/04/2016

  1. Ore   07.00  Partenza;
  2. Ore   09.00  Arrivo a Montescaglioso in Piazza Roma;         visita del centro storico;
  3. Ore   09.30  Visita Abbazia S. Michele Montescaglioso;
  4. Ore   12.00  Partenza per il Ristorante;
  5. Ore   13.00  Pranzo presso l’Agriturismo Fantan di noce-   Miglionico           Tel.   3278274390; 
  6. Ore   15.30  Partenza per Miglionico;
  7. Ore   16.00  Visita al Polittico di Cima da Conegliano;
  8. Ore   18.00 Visita al Castello del Malconsiglio;
  9. Ore   19.30  Partenza per Oppido.

lunedì 4 aprile 2016

Mercoledì 06 Aprile

alle ore 18.30

presso la Biblioteca Comunale

il Prof.  F.S. Lioi

terrà la seguente conferenza:

“La congiura dei Baroni ”

Riforma fiscale e conseguenze





Gli iscritti e tutte le persone interessate sono invitati.

sabato 2 aprile 2016

18° INCONTRO –24 MARZO 2016- Prof. Rocco BASILIO
Dante: Divina Commedia, Inferno, Canto 26°
Lettura e commento

Il prof. Rocco Basilio ha letto e commentato il 26° canto dell’Inferno dantesco, appassionando l’uditorio che ha seguito con la massima concentrazione. Siamo nell’ottava bolgia, nell’ottavo cerchio dell’Inferno che è dedicato aifraudolenti”, le cui anime sono avvolte da una fiamma perpetua. Il canto si apre con un’invettiva di Dante contro Firenze che predice la punizione che subirà la sua città. Dante nota delle fiammelle, paragonate alle lucciole che vede il contadino che si riposa la sera d’estate: sono le anime dei peccatori, condannate al rogo eterno. Il poeta scorge una fiamma doppia e chiede spiegazioni a Virgilio: sono Ulisse e Diomede, puniti insieme per tre peccati comuni, l’inganno del cavallo di Troia, il furto del Palladio di Troia e la scoperta di Achille, travestito da donna per non andare in guerra. Ma Ulisse si trova qui per scontare la sua colpa che consiste nell’aver trascinato la “compagnia picciola”, come Dante chiama i compagni di viaggio dell’eroe greco, nel suo “folle volo” cioè aver attraversato le colonne d'Ercole, limite invalicabile dell'uomo. La colpa di questi dannati è legata alla conoscenza e, soprattutto, all’uso della parola per tessere inganni per cui il loro peccato è di natura intellettuale, di superbia intellettuale. Ulisse e Diomede scontano, infatti, la colpa per una serie di imbrogli che avevano ordito attraverso un uso sapiente del linguaggio. Ulisse racconta così la sua ultima avventura, che non è tramandata dalla tradizione classica dell'Odissea (che Dante non conosceva direttamente), ma da una tradizione secondaria medievale.
Il Prof. Basilio pone un parallelismo tra il viaggio di Ulisse, che con i suoi compagni si dirige sulla "picciola nave" verso la montagna del Purgatorio e il viaggio di Dante, che si sta recando proprio al Purgatorio. In particolare Virgilio spiega che le anime dei condannati, in questo caso, sono avvolte all’interno di una fiamma e che questa fiamma interrogata da Virgilio, in realtà, ha due anime, due corpi che simboleggiano i corpi di Ulisse e Diomede. Dante, desideroso di parlare con i due antichi eroi greci, insiste per cinque volte con Virgilio che gli promette di rivolgere loro egli stesso delle domande, purché taccia. Virgilio si pone, quindi, da interprete tra Dante e le due figure epiche.
La fiamma più grande, Ulisse, si muove e dal fuoco cominciano a uscire delle parole. Ulisse inizia il racconto sui suoi ultimi anni di vita: una volta tornato in patria, l’eroe fu preso dal desiderio di compiere un nuovo viaggio; si rimette quindi in mare con i suoi compagni fino a giungere alle Colonne d’Ercole (l'attuale stretto di Gibilterra), dove era posto il limite invalicabile delle terre conosciute. Ulisse, convinti i compagni con un appassionato discorso, supera le Colonne. Dopo mesi di viaggio l’eroe e il suo seguito giungono in vista di un’isola, che si capirà poi essere la montagna del Purgatorio.

quando n'apparve una montagna,
bruna per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com' altrui piacque,

infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».

Il numeroso pubblico presente ha seguito con interesse la narrazione delle vicende ed alla fine ha ringraziato l'oratore con un caloroso applauso.
D.M.

venerdì 1 aprile 2016

23° INCONTRO 30 marzo 2016 Sig. VITO MARONE
“Felicia:
cronaca di un viaggio straordinario”

L’incontro di questa sera è dedicato alla meravigliosa avventura di una donna di Oppido, Felicia Muscio, che, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, insieme alla figlioletta Rosa, quattro anni e poco più, offre una prova di attaccamento alla famiglia affrontando un avventuroso viaggio da Oppido fino in Cile, per raggiungere il marito, che era emigrato in quella terra circa quattro anni prima.
La Storia ce la racconta Vito Marone che ha studiato il fatto, ricercato notizie e visitati i luoghi della vicenda. Felicia Muscio è una lucana di Oppido che alla fine del XIX secolo lasciò il paese per un indicibile viaggio in Sud America, per nave e poi attraverso le Ande con mezzi di fortuna su muli e carretti, e ancora per mare verso il lunghissimo nord del Cile, per raggiungere il marito nella lontana Iquique. Avvolta in un’ampia coperta, su un sentiero stretto e ripido, Rosa è a dorso di una mula. Fa freddo, benché sia estate. Intorno a lei, la roccia dell’arido paesaggio andino mostra qua e là le chiazze abbaglianti di nevi perenni. Rosa è un fagotto in braccio alla mamma, e si lascia trasportare con l’indolenza di una precoce rassegnazione alle vicende della vita. Non ha ancora cinque anni. Va a raggiungere il papà che l’aspetta in un paese dal nome strano, così diverso dai nomi dei paesi che ha lasciato da ormai più di un mese. Iquique. Chissà quanti giorni ci vorranno ancora per quella meta lontana.
Sembrava già tanto lungo il viaggio da Oppido a Napoli. Ma il mare! Quel mare sembrava non voler finire mai. Quanti giorni, settimane, prima di poter ridiscendere dalla nave!
Più di un mese per Mar del Plata, e non era che una tappa di questo percorso interminabile. Poi con mezzi di fortuna fino a San Martín de los Andes, il confine andino dove finisce la ferrovia e l’Argentina. Là, un mulattiere propone alla mamma di accompagnarle di là dalle Ande, a Los Andes del Cile. Sono già tre giorni almeno che, insieme alla mamma, la bimba viaggia sul dorso di una mula che ora la culla ora la fa sobbalzare lungo la Cruce de los Andes, sentieri tortuosi, ripidi, polverosi, ponti stretti che passano su baratri e precipizi da far paura anche alle bestie e non sa che, dopo questo viaggio, non sarà ancora finita: dal confine a Santiago e Valparaíso, le attende non meno di due settimane di carretto e poi, dal porto, mamma e figlia dovranno prendere ancora una nave per il lungo nord cileno: altre mille miglia fino a Iquique.
Una storia che potrebbe chiamarsi Dagli Appennini alle Ande… Perché dagli appennini lucani parte questa vicenda, dai monti di Oppido che allora – siamo alla fine dell’Ottocento – si chiamava Palmira (il nome che il paese ebbe per pochi decenni, dal 1863 al 1933).
Nonna Felicia Muscio e la piccola Rosa impiegarono due mesi per arrivare a Iquique.
Poi l’incontro con il marito e le altre vicende che portarono quest’ultimo ad Oppido, nella speranza di trovare migliori condizioni di vita rispetto a quelle che aveva lasciato alla sua partenza. E invece qui trovò la morte.
A Felicia Muscio, alla sua avventura, il sindaco della città di Iquique, Jorge Soria, volle che si dedicasse un simbolo concreto, che fosse, oltre che l’emblema dell’emigrazione lucana, un riconoscimento del contributo dato dai nostri corregionali allo sviluppo e all’economia della città: un grande monumento realizzato dal maestro Antonio Masini, “Felicia de los Andes, che oggi si staglia a Iquique, di fronte all’oceano.
Il pubblico presente ha seguito con vivo interesse ed attenzione la narrazione, tributando al relatore un caloroso applauso.

D.M.