10° INCONTRO 16/12/2015 Prof. F. S. LIOI
“Le migrazioni nell’Italia del V sec. A.C.”
Ver
sacrum: Le migrazioni dei popoli nell’Italia antica.
Se diamo uno sguardo ad una cartina dell’Italia del V sec.
a. Cristo, si nota un susseguirsi di nomi di popoli. Man mano che l’occhio scende verso il sud
della cartina vede una quantità ed una varietà molto più variegate di nomi al
centro Italia che al sud. Partendo dall’Umbria moderna e seguendo la dorsale
appenninica, leggiamo sulla cartina una sequenza di popoli di origine
indoeuropea: Umbri, Latini, Sabini dai quali ebbero origine, con il rito della
Primavera Sacra, Volsci, Piceni, Sabini, Marsi, Frentani, Sanniti, Lucani, ecc.
Questo è conseguenza di continue migrazioni di gente di uno
stesso popolo che, di tribù in tribù, lasciava la terra d’origine in cerca di
nuove terre, di nuovi pascoli, di una maggiore possibilità di vita. Perché
avveniva questo? Quale era il popolo che ha dato origine a questo fenomeno, che
ha accompagnato la storia d’Italia nel suo farsi e che ancora continua?
L’Italia è stata sempre una terra di emigrazione e di immigrazione, ma anche di
movimenti interni di gente che si è mossa a fasi alterne dal sud al nord e dal
nord al sud. I primi trasferimenti di popoli all’interno dell’Italia sono
avvenuti da nord al sud, verso un clima più temperato che offriva migliori
condizioni a popoli che vivevano ancora in tende o capanne e che avevano nella
transumanza dei greggi la loro ricchezza.
Questa sera vogliamo analizzare con parole semplici le
migrazioni avvenute sul suolo italico nel V sec. a. Cristo, quando ancora i
Lucani non esistevano e i territori che occuperanno erano abitati dagli Enotri,
i quali lungo le coste avevano subito la pressione dei Greci, venuti
d’oltremare in cerca di terreni pianeggianti e fertili. “ Nulla vi è di più bello, di più desiderabile, di più amabile, quale è
il luogo intorno alle correnti del Siri” aveva detto, Archiloco, un poeta
greco del VI sec. avanti Cristo. Nel V sec. a. C. la tradizione storica data le
invasioni migratorie degli osco-umbri nel resto della penisola italica, dal
nord verso il sud, verso il territorio degli Enotri, resti superstiti fra Sele
e Bradano delle tribù indoeuropee, dice Giacomo Devoto. “Enotri”: che cosa
significasse il termine, noi non sappiamo, dice sempre Giacomo Devoto. Stiamo
parlando di avvenimenti accaduti trecento anni dopo di quando la vita si
svolgeva sul Montrone, di cui è testimonianza la necropoli.
Gli storici non hanno ancora trovato un accordo
sull’origine degli antichi popoli italici, Etruschi compresi. Secondo alcuni
son venuti da oltre le Alpi popoli in cerca di nuove terre e migliori
condizioni climatiche: sarebbero questi i primi italici. Potrebbero essere
venuti con una continua, lenta penetrazione migratoria da Est, attraverso
l’Adriatico, invadendo valli e pascoli e campi. Questi popoli, dice Silvio
Ferri, per dimora stabile scelsero la cima delle montagne dell’odierna
Basilicata, come per difendersi meglio; sono sempre rimasti lì; noi ce li
troviamo nel I millennio a. C. e corrispondono ancora, su per giù, alle
cittadine odierne. (Silvio Ferri, Antiche
civiltà lucane, p. 39). Migrazioni, sempre movimenti di popoli in cerca di
migliori condizioni di vita. Anche gli Osco-umbri sarebbero giunti in Italia in
cerca di sole e di pascoli, ma dal Nord, da dove hanno iniziato la loro marcia
verso il Sud. Costoro, secondo altri insigni storici, sarebbero autoctoni, si
sarebbero mossi in Italia, sempre dal Nord al Sud, lungo la dorsale
appenninica, e avrebbero dato origine a tutti i popoli che,
prima della conquista romana, abitavano la penisola italica dal Piceno al
Bruzio. Questi popoli, condizionati dalla natura dei luoghi e da questa fissati
in nuovi tipi etnici, avevano come patrimonio ed elementi comuni portanti la lingua osca, parlata fino al primo secolo
avanti Cristo, quando è stata soppiantata dal latino, l’arte e il diritto. Di
costoro l’archeologia ha fatto conoscere avanzi di vita materiale, di
abitazioni e di tombe, di ceramica domestica e di armi. Tutto questo formava
una koinè culturale di tradizione
italica e protolatina. La cultura formava una forte comunità, divisa però in
tante piccole entità tribali federate. La formazione di tante piccole
federazioni era favorita dalla conformazione del territorio, dalle difficoltà
di comunicazioni e dalla scarsezza di zone pianeggianti. Gli Osco-Umbri nella
loro evoluzione storica hanno occupato territori sempre più meridionali ed in maniera
sempre più rapida, per la fecondità della stirpe, che ha dato luogo ad una
continua divisione di persone con il ver
sacrum, (primavera sacra) per la ricerca di nuove terre, sia per la
pastorizia che richiedeva sempre nuovi ed estesi pascoli, sia per la formazione
di nuove tribù, non avendo queste genti ancora un’idea di uno stato unitario:
piccolo territorio, piccolo gruppo di persone retto da un capo tribù e grande
facilità di staccarsi dal gruppo per andare a fondare una nuova comunità.
La penetrazione di questi popoli di pastori verso il sud,
che la storiografia chiama italici, seguiva le valli dei fiumi, che dalle cime
dell’Appennino scendono verso il mare. Le valli, infatti, offrivano condizioni
migliori per la transumanza secondo le esigenze stagionali dei greggi. La
transumanza dai monti verso le pianure, e viceversa, ha segnato nel tempo
quelle vie naturali che vanno sotto il nome di tratturi.
La facilità di
penetrazione sempre più a sud e verso i mari fu data dal fatto che gli Italioti, cioè i
Greci delle colonie greche della costa, non erano ancora penetrati
nell’interno, ma anche dalla scarsa
densità demografica della dorsale appenninica e delle sue valli e dalla debole
resistenza degli indigeni ai nuovi invasori.
Le ondata migratoria osco-umbra nel V, IV sec. a. C. diede
origine ai popoli italici fra i quali i Sabini.
Da questi ebbero origine tutti gli altri popoli mediante il ver sacrum: (cioè, primavera sacra): una
manifestazione divinatoria delle popolazioni antiche italiche basata su
un’emigrazione forzata. Il rito diminuiva la pressione demografica non appena
essa aumentava in un determinato territorio con il passar del tempo e favoriva
la colonizzazione di zone limitrofe. Il ver
sacrum spingeva i popoli di lingua osca ad inoltrarsi lungo l’Appennino,
verso terre sconosciute per fondare nuovi insediamenti. Il rito della primavera
sacra veniva celebrato quando il popolo
era colpito da sventure, quali una sconfitta militare o una carestia. Venivano
allora consacrati alla divinità: animali e prodotti della terra, presso alcune
tribù, nati e raccolti fino al primo
marzo, presso altre durante tutto l’anno in corso. Dopo un ver sacrum, i Sabini furono colpiti da una grave carestia, furono
così costretti ad offrire anche i bambini nati
entro l’anno. Gli animali furono sacrificati, i bambini invece dopo una
rivolta delle donne in difesa dei loro figli, non vennero sacrificati, ma
vennero sacrati, cioè consacrati alla divinità, e giunti all’età adulta,
dovevano emigrare verso nuove terre per alleggerire la pressione demografica e
fondare una nuova comunità. Era un’emigrazione sacra, totemica, che ha dato
luogo a tutti i popoli italici; il totem era un animale guida, che dava
indicazioni sul viaggio, indicava la via, i luoghi in cui stabilirsi. Per i
Piceni era il picchio verde, per i Sanniti il toro, per gli Irpini il lupo
chiamato hirpus, per i Lucani il lupo.
Così Strabone racconta il rito della Primavera sacra presso
i Sabini:
Intorno ai Sabini c’è ancora un’altra tradizione secondo cui i Sabini ,
da lungo tempo in guerra contro gli
Umbri, come era soliti fare anche alcuni popoli greci, avevano fatto il voto di
consacrare tutto ciò che sarebbe stato prodotto nell’anno e, avendo vinto,
offrirono in sacrificio una parte dei loro raccolti e consacrarono il resto
agli dei. Sopravvenuta però una carestia, qualcuno disse che bisognava
consacrare anche i figli. Quelli dunque fecero così e promisero ad Ares i figli
nati in quell’anno; una volta che costoro divennero adulti, li fecero emigrare
dal paese sotto la guida di un toro. Il toro si sdraiò, per dormire nel paese degli
Opici, che allora vivevano sparsi in villaggi, essi li attaccarono, si insediarono
lì e sacrificarono il toro ad Ares, che lo aveva dato ad essi come guida,
secondo il responso degli indovini.
Strabone (V,
250) fa discendere con la pratica del ver
sacrum tutti i popoli italici dai Sabini. Dice Strabone: I Sabini sono una
stirpe assai antica e sono autoctoni (αυτόχθονες); loro coloni sono i Picentini
e i Sanniti; coloni di quest’ultimi sono i Lucani, di questi i Bruttii (V, 31).
Le popolazioni italiche nacquero così, con la Primavera sacra, durante l’età
del ferro della penisola italica. Un gran numero di tribù sannitiche nel corso
del V sec. emigrò verso la pianura campana e verso quella terra che sarà
chiamata Lucania. Il Sannio non era favorevole all’accrescimento della
popolazione, così il ver sacrum non
si interruppe, ma si intensificò, e si migrò sempre più a sud, verso le
pianure, verso la piana del Sele da un lato e verso la valle del Bradano
dall’altro. Si percorrevano, sempre sotto la guida dell’animale sacro, le valli
dei fiumi: del Liri, del Volturno, del Sele, del Bradano, che offrivano strade
verso il mezzogiorno di Italia. I Sanniti che emigrarono dirigendosi verso le
sorgenti del Bradano presero nome Sabelli; di costoro parla Orazio a più riprese. Li conosce per una
vita di dura e severa disciplina acquisita nel lavoro agricolo e per il
superstizioso attaccamento alle pratiche magiche. Parlando di Venosa il poeta dice
che fu fondata in territorio sabellico, territorio questo occupato da quel ramo
dei Sanniti che si diresse verso le sorgenti del Bradano. Così Orazio dice di
se stesso e del territorio:
Lucanus an Apulus,
anceps, / nam Venusinus arat finem sub utrumque colonus, / missus ad hoc,
pulsis , vetus est ut fama Sabellis…(Lucano o Apulo non so, Perché il colono
venosino ara fra i due confini, mandato là, secondo una tradizione antica, dopo
la cacciata dei Sabelli, perché il nemico non sorprendesse i Romani, in un
paese spopolato, fossero gli Apuli o i Lucani, tutta gente violenta, a
scatenare una guerra).
I migranti che giunsero nelle terre che in seguito saranno
dette lucane, naturalmente, si imbatterono nelle nuove terre con genti
autoctone preesistenti, genti italiche o anche preitaliche di origine
preindoeuropea, che avevano una loro civiltà e un loro modo di vivere. Vennero
a contatto con gli Enotri (coltivatori della vite) che Ecateo considera
indigeni. Con queste genti i nuovi
arrivati si fusero, pur avendo su di esse il sopravvento. L’ondata migratoria
osca verso il Sud, dal Sannio, diede origine ai Campani, ai Lucani, dai quali
in seguito ebbero origine i Bruzi. Le genti del Sannio, dice Luigi Pareti nella
Storia di Roma, scesero come un
alluvione in tutte le terre circostanti, verso ovest con i Campani, verso Sud
con i Lucani. I Lucani, quindi, erano oschi di stirpe sannitica, occuparono le terre
a sud del Sele verso il Tirreno e del Bradano verso lo Jonio. Sempre con il
rito della Primavera sacra essi si sono sparsi per tutto il territorio su una
superficie di 14.500 kilometri quadrati, nella seconda metà del IV sec. a. C.
Dirigendosi verso vari punti della regione fondarono,
stando a quanto dice Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia III, 98, le tribù: Atinati, Bantini, Eburini Grumentini, Numestrani, Potentini, Sontini,
Sirini, Tergiliani, Ursentini, Volcentani.
Uno storico greco, lo pseudo Scilace dice di conoscere in
tutta l’Italia meridionale, a sud dei Sanniti e dei Iapigi, una sola regione:
la Lucania, abitata dai Lucani, discendenti dei Sanniti, i quali sciamarono
verso le sorgenti del Sele e del Bradano, formando la federazione dei Lucani su
una superficie di 14.500 Km quadrati, secondo calcoli moderni..
Rimane per la storia nebuloso il rapporto che i nuovi
arrivati, i Lucani, ebbero con gli
Enotri, popolo preesistente, con il quale si fusero non sappiamo se per
conquista o pacificamente. Gli storici antichi, invece, ci parlano dei rapporti
conflittuali con le colonie greche della costa. I Lucani conquistarono alla
fine del V sec. a. C. Posidonia, che chiamarono Pastom, Paestum in seguito per
i Romani, e tutte le altre città della costa tirrenica, esclusa Velia. Opposero
una forte resistenza ai Romani, i quali alla fine li asservirono al loro
potere. L’epitaffio di Cornrelio Scipione Barbato dice: subigit omne Loucanam opsidesque abducit. (sottomise tutta la Lucania
e ne trasse ostaggi).
I Sanniti scesi
verso il Tirreno, furono costretti ancora una volta ad emigrare. Le colonie greche di Posidonia e di Elea
avevano in precedenza spinti verso l’interno gli indigeni della costa, che dal
promontorio di Punta Licosa denominarono Lucani, cioè gli abitanti del
promontorio, e l’interno chiamarono Lucania. I nuovi arrivati, cioè i Sanniti,
furono anch’essi denominati Lukanoi,
costoro a loro volta conquistarono la costa trasformando la greca Posidonia
nella italica Pesto, negli usi e nei costumi diffondendo la lingua osca. Se la
conquista dei territori interni avvenne pacificamente per la scarsità
demografica del territorio e la decadenza degli insediamenti demici dei quali
rimangono le necropoli, i Lucani furono costretti a combattere con le città
greche della costa, che alla fine conquistarono e lucanizzarono. Aristosseno,
scrittore tarantino, dice che Posidonia, essendo greca di origine, si imbarbarì
mutando la lingua e le istituzioni. La lingua è fattore di civiltà e l’osco,
lingua portata dai Lucani nelle terre da essi conquistate, perdurò anche con la
romanizzazione, come dimostra la tavola bantina, trovata qui a Oppido, nel 1793:
un tavola di leggi scritta in latino ed in oasco..
Gli osco-sanniti prima di penetrare in Lucania non
conoscevano la scrittura; l’appresero quando erano già in Lucania dai greci
della costa e l’applicarono alla loro lingua: l’osco. Da Strabone sappiamo che
i Lucani erano retti democraticamente, con magistrature cittadine, come risulta
anche dalla Tavola Bantina. . In caso di guerra nominavano un magistrato che
come capo di tutti i dodici popoli da cui era formata la federazione lucana.
Nella guerra sociale contro Roma il capo lucano era Caio Lamponio. Le zone
lucane vicine agli influssi greci di Metaponto e di Paestum raggiunsero un
livello superiore di civiltà e di ricchezza. Il commercio e la transumanza dei
greggi cercava di colmare la sperequazione fra l’interno montuoso e le zone
pianeggianti della costa.
Non mancano anche migrazioni dal sud verso il nord della
penisola, come quella di quella tribù che aveva come guida il vitello: la tribù
di nomò Italoi, Itali, nome che col
tempo salì fino al Po e diede l’etnico a tutti gli abitanti della penisola.
Ma chi erano questi Lucani e come vivevano nel quotidiano?
Uno scrittore greco del II sec. dopo Cristo, Claudio
Eliano, riporta in una sua opera una
legge dei Lucani (τις νόμος Λευκανϖν) che diceva: Dice una legge dei Lucani che, se al calar
del sole giunge uno straniero e volesse fermarsi nella casa di uno, questi non
mandi via l’uomo, lo deve ospitare, se non, a me sembra che debba pagare la
pena per non averlo ospitato a Giove ospitale.
Λέγει τις νόμος Λευκανϖν, ἐάν ἠλίου δύντος αφίκῃται
ξένος καί ἐθελήσῃ ἐς στέγῃν
τινός, ὂ δὲ μή δέξηται τὸν ἄνδρα
Giustino, uno scrittore latino del I sec. d. Cristo, invece ci riporta qualcosa sull’educazione dei
giovani Lucani.
Dice Giustino:
I Lucani solevano allevare i loro figli come
gli Spartani; giunti a pubertà, li tenevano tra i pastori nei boschi, senza
alcun aiuto servile, né vesti da rivestirsi o da dormirci, in modo da
assuefarli alla vita dura e parca, senza gli usi delle città. Mangiavano
cacciagione e bevevano latte od acqua, e si indurivano nei lavori bellici.
Erano soliti aggirarsi a predare i campi dei vicini in gruppo di 50, ma poi
aumentati di numero, e attratti dalla preda, in gruppi maggiori infestavano i
paesi.
La serata si è conclusa con domande e curiosità rivolte all’oratore
e con un applauso finale.