venerdì 22 aprile 2016

26° INCONTRO –20 APRILE 2016- Prof. Rocco BASILIO
Dante: Divina Commedia, Inferno, Canto 33°
Lettura e commento

Il prof. Rocco Basilio ha eseguito la lettura e il commento del 33° canto dell’Inferno dantesco, appassionando l’uditorio che ha seguito con la massima concentrazione. In apertura del canto Dante si trova nella ghiacciaia del Cocito, nel nono cerchio, dove sono puniti i traditori della patria e degli ospiti. Già nella conclusione del canto precedente, egli aveva scorto due dannati immersi in parte nel ghiaccio, uno dei quali addentava la nuca dell’altro. Sono il conte Ugolino della Gherardesca e l’arcivescovo Ruggieri di Pisa, due figure storiche legate alle vicende politiche di Pisa: il conte, di origine ghibellina, era alleato con i guelfi – di qui il suo tradimento- per interessi economici e di difesa dei suoi territori; suo avversario era l’arcivescovo, intorno al quale si erano radunati gli altri nemici di Ugolino. In seguito a una rivolta popolare, nel 1288, il conte viene catturato e chiuso nella Torre della Muda con i suoi figli e nipoti. La vicenda narrata dal conte inizia con un sogno dello stesso in cui compare l’Arcivescovo Ruggieri intento in una caccia al lupo. L’animale, insieme ai suoi cuccioli, è inseguito e attaccato dalla muta di cani dell’ecclesiastico, ed è simbolo del conte stesso, tradito e catturato insieme ai figli. Ugolino, una volta risvegliatosi, sente i figli piangere per la fame. Nei versi successivi il conte riprende la narrazione: sente che la porta della torre viene inchiodata, imprigionandoli definitivamente. Ugolino, per nascondere il dolore ai figli in modo da evitar loro ulteriori sofferenze, non risponde alle loro domande e richieste per un giorno intero e una notte. Guardando poi il loro volto emaciato, riconosce il suo aspetto e in un momento di furore si morde le mani. I figli interpretano il silenzio ed il gesto del padre come segno della sua fame e offrono di farsi mangiare: “tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia” Il conte, come risvegliatosi dal torpore indotto dal dolore, consola i figli. Ma nei giorni successivi è costretto ad assistere alla morte di ognuno di loro in un susseguirsi straziante di sofferenze, che culminano con la morte del conte.
Concluso il drammatico racconto, da cui emerge l’umana figura di Ugolino, testimone impotente della scomparsa dei figli, Dante poeta ritorna alla situazione iniziale: il dannato, che ha ormai perso la sua umanità, furioso e pieno di rabbia nei confronti del suo traditore:
“Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ‘l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti”.
Nei versi successivi Dante rivolge un’invettiva contro Pisa, “vituperio de le genti”. Il poeta invoca la distruzione della città, sdegnato dalle lotte tra fazioni. Dante e Virgilio giungono nella Tolomea, una vasta landa ghiacciata in cui sono conficcati i dannati puniti quali traditori degli ospiti, tra cui, celebri all’epoca per l’efferatezza dei loro delitti, frate Alberigo, uno dei capi guelfi di Faenza, che avendo alcune discordie con suoi parenti, nel 1285, il 2 maggio, decise di invitarli a pranzo alla fine del quale li fece uccidere dai servi nel momento in cui venne portata la frutta; da qui l’espressione proverbiale “siamo alla frutta” che è un’allusione alla fine prossima della vita e Branca Doria, appartenente ad una nota famiglia ghibellina genovese, che tradì e uccise il suocero Michele Zanche. Proprio per questo nei versi finali Dante rivolge una nuova invettiva contro i genovesi per la loro malvagità e nuovamente si augura la loro fine.
“Ahi Genovesi uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”
L’attento pubblico ha seguito con interesse lo svolgersi delle vicende tributando un caloroso applauso finale all’oratore.

D.M.

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