venerdì 29 aprile 2022

I Racconti di " L'Oppido 1"

 9° Incontro - 20/4/ 2022 - Antonio CALABRESE

 I racconti di  "L'Oppido Uno": Con la valigia di cartone

Negli anni '60 del secolo scorso nel nostro paese, come in tutti i paesi del Sud Italia, si verificò un forte flusso migratorio, prima verso le regioni ricche del Nord e poi, in misura più consistente, verso la Svizzera e la Germania. 

Partivano gli uomini, lasciando a casa le loro famiglie con le donne che avrebbero dovuto badare ai figli piccoli e, per quelli che ne erano in possesso, alla conduzione del piccolo podere di famiglia.,

Antonio ambienta il suo racconto in quegli anni e ci offre uno scorcio di vita vissuta da una famiglia, che è la famiglia della sorella Felicetta, dei suoi due figli Michele e Nunzia, ancora bambini, e di suo marito Rocco, emigrato in Germania. 

Siamo negli ultimi mesi dell'anno e vediamo Felicetta alle prese con la raccolta delle olive. Non trascura i suoi figli; Michele, più grandicello, pur essendo un bambino educato e giudizioso, ha pur sempre i suoi innocenti capricci  da soddisfare. 

Intanto si avvicina il Natale e Michele è intento a preparare il Presepe con i pochi pezzi che possiede e che rappresentano tutti i personaggi della Sacra Scena; manca però l'Angelo, che annunzia la nascita miracolosa, da porre sulla grotta. Glielo comprerà la mamma ?

Ma l'avvenimento che tiene in trepida attesa tutta la famiglia è il ritorno di Rocco per la breve vacanza natalizia. Ed egli giunge a casa pochi giorni prima di Natale, accolto dalla festa e dalla gioia di tutti.

I bambini però vogliono vedere subito cosa ha portato loro il papà e così la valigia viene aperta e vengono mostrati i regali, per grandi e piccini.

I pochi giorni di festa trascorrono veloci e pieni di impegni; il più pressante e faticoso è l'uccisione del maiale, che tiene occupati tutti i familiari ed i vicini di casa. I bambini però vengono allontanati, non devono assistere al cruento spettacolo!

La ripartenza di Rocco per la Germania arriva presto, occorre preparare di nuovo "la valigia di cartone"; chi parte e chi rimane deve darsi coraggio per affrontare di nuovo i lunghi mesi della lontananza.

Il bel racconto di Antonio viene allegato a questa brevissima sintesi e potrà essere letto per intero da tutti.

 

CON LA VALIGIA DI CARTONE...   di Antonio Calabrese



Quella sera Michele andò a dormire, tutto contento, subito dopo Carosello.

L'indomani era giorno di vacanza e non c'era scuola, essendo la festa dell'Immacolata, ma la cosa che lo rendeva ancor più gioioso era che si stava avvicinando il Natale.

La mamma e la nonna gli avevano promesso grandi regali e lui era ansioso in attesa della Festa.

Contava i giorni fin dal suo compleanno, il due di ottobre, quando sua madre gli aveva consegnato venti mila lire e una lettera di suo padre.

Rocco, il papà di Michele, era emigrato in Germania e non tornava a casa dal Natale scorso. 

Di solito tornava una quindicina di giorni anche nel mese di agosto giù in Basilicata, ma quell'anno gli era capitato un lavoro extra ed era rimasto su a far qualche soldo in più.

D'accordo con sua madre gli avevano, quindi, fatto quel sostanzioso regalo di compleanno.

L'assegno era arrivato a fine settembre. Rocco aveva preso la paga del lavoro estivo e tenendo per se solo qualcosa, triste per la mancata visita alla famiglia, spedì un bel gruzzoletto inaspettato alla famiglia.

Felicetta corse subito alla posta e versò tutto nel libretto postale. Preferiva prendere i soldi poco a poco, man mano che le servivano. Aveva paura a tenerli in casa e d'altronde cercava di arrangiarsi senza spendere troppo. Usava i soldi giusto per pagare le bollette e per qualche spesa necessaria.

L'orto bastava a sfamarli e ogni volta che i suoi prendevano la pensione, le davano un regalino per fare la spesa alla bottega o acquistare qualcosa per i bambini. 

Il pane Felicetta lo faceva in casa con la farina del proprio grano: era più conveniente.

Michele e sua sorella Nunzia erano abituati da sempre al pane di casa e non facevano capricci, ma ogni tanto la mamma comprava loro il panino con la mortadella da portare a scuola.

Il pane fatto in casa, appena sfornato, d'altronde era buonissimo e ne faceva sempre una bella scorpacciata condito con l'olio o col pomodoro fresco in estate.

Tolta la giornata del mercato che movimentava un po' il paese, non c'erano svaghi, ma il periodo di fine novembre era sempre quello più indaffarato per le famiglie.

Bisognava raccogliere gli ultimi frutti autunnali e far seccare peperoncini e legumi. Chi aveva la vigna doveva prepararsi alla vendemmia e, cosa più faticosa, preparare le campagne alla raccolta delle olive. 

Per chi, come Felicetta, aveva il marito emigrato, il lavoro era sicuramente più pesante e i bambini non potevano certo permettersi il lusso di far capricci e storie. 

Buoni buoni se ne andavano a scuola da quando iniziava il primo di ottobre e in casa aiutavano come potevano. Anche sbrigare qualche piccola commissione in paese, era un grande aiuto.                 

Ogni volta che il suo papà partiva, prima di entrare nell'auto a noleggio insieme ad altri paesani, Rocco diceva sempre a Michele:

“Mò si tu l'ommene de case, me raccumanne de nan fà arrabbià a màmmete, ca me dice tutte, se no ije nan te porte nudde. Niènte ciucculate e caramèlle.”

“Ora sei tu l’uomo di casa, mi raccomando di non fare arrabbiare tua madre, che mi dice tutto, se no io non ti porto niente. Niente cioccolate e caramelle.”

Michele annuiva triste triste e in cuor suo sentiva quel compito come una missione da portare a termine fino al prossimo ritorno di suo padre.

Ogni volta vedeva sua mamma piangere seminascosta perché intorno c’era altra gente e allora anche a lui spuntavano le lacrime, ma lesto le ricacciava indietro e faceva lo scemo ridendo e scherzando col papà che lo abbracciava stretto e poi s’infilava subito in auto per non far vedere le sue lacrime...

Tutti piangevano, ma chissà perché, tutti cercavano di nasconderlo.

Il giorno del compleanno, quando sua madre gli diede quelle ventimila lire, non credeva ai suoi occhi.

“So tutte i mije?”

“Sono tutti miei?”

“E cèrte, so lu rijale mije e de papà, p’accattàrete qualche cose pe Natale. Te sèrvene re scarpe e pure nu cappotte, ca sì cresciute e cudde ca tiène te vaije zicche.”

“E certo. Sono il regalo mio e di papà, per comprarti qualcosa per Natale. Ti servono le scarpe e pure un cappotto, che sei cresciuto e quello che tieni ti va piccolo.”

Le madri avevano la capacità di prendere sempre due piccioni con una fava. Sapevano quello di cui avevi bisogno e facendo finta di regalarti qualcosa, sapevano fartela usare per quel che avevano previsto. 

Ti facevano contento e gabbato con poco, ma a dieci anni, fino ad una cinquantina d'anni fa, non c’era la malizia di oggi e ogni minima cosa ci sembrava un dono. Bastava poco a farci felici.

Michele guardò e riguardò cento volte quei “soldi di carta” e si sentì ricco.

Mai aveva avuto un tale regalo, ma quel giorno compiva dieci anni, stava diventando grande e nella lettera a lui indirizzata, suo padre gli ribadiva che doveva aver cura della famiglia mentre lui era lontano a lavorare. 

Le altre diecimila lire dei nonni, poi, lo resero euforico per tutto il giorno. Sapeva che servivano a comprare dei vestiti, ma era tanto contento di sapersi padrone di un simile dono e andò subito fuori a raccontarlo a Donato e Michelino, i suoi amici di giochi, nonché vicini di casa. 

L'indomani, quando Michele tornò da scuola, consegnò un foglio a quadretti piegato in quattro a sua madre dicendole che era una lettera di ringraziamento per il suo papà e se gliela poteva spedire.

Felicetta sorrise, facendo finta di nulla.

Le mamme di un tempo, stanche e sempre indaffarate, erano poco espansive e, per un'innata e incomprensibile ragione, cercavano sempre di nascondere gli amorevoli sentimenti. Erano poco propense alle carezze, ma facevano di tutto per accontentarti senza darlo a vedere. Tutto sembrava casuale o, peggio, dovuto e non s'aspettavano ringraziamenti.

A vederle oggi, sembrerebbero fredde, le madri lucane di un tempo.

Piene di affanni e pensieri chiusi nel cuore e la vita scritta dalle rughe sul viso. Capelli presto canuti e labbra senza sorriso.

Solo la rabbia sapevano sfogare.

“Nunzia, sì cuntènte ca sciame arru mercate?”

“Nunzia, sei contenta che andiamo al mercato?”

“Boh...sè, me piace... nonna Giulije m’à ditte ca m'accatte na cose.”

“Boh, si, mi piace…nonna Giulia mi ha detto che mi compra una cosa.”

I due fratellini dormivano nella stessa stanzetta.

Nunzia era una dolce bimba di nove anni, timida e silenziosa, che stava sempre attaccata a sua madre osservando con interesse tutto ciò che lei faceva. 

A questo modo aveva già imparato a rifarsi il letto, a lavare i piatti, a spazzare e lavare il pavimento e tanti altri piccoli lavoretti. 

Aveva imparato a usare l’uncinetto e, di nascosto, stava facendo una bella sciarpa calda per il suo papà con la lana comprata dalla nonna che durante l'estate le aveva insegnato a lavorare ai ferri. 

Cose semplici, dritto e rovescio, ma per la sua età era un gran bel risultato e la nonna ne era orgogliosa. Insieme, complici, avevano deciso di fare quel regalo al papà per Natale. 

In Germania faceva freddo e una bella sciarpa calda avrebbe fatto comodo.

Michele smaniava nel letto e non riusciva a prendere sonno.

D'altronde erano ancora le nove di sera, ma sempre a quell'ora andava a letto e tutte le sere crollava stanco dopo i giochi pomeridiani in giro per il quartiere, ma quella sera era molto eccitato pregustando la giornata del mercato e cercò di ricordare il mercato degli anni prima.

L'anno precedente c'era stata la pioggia e in cuor suo pregava che facesse bel tempo. A dir la verità, in serata, qualche nuvoletta c'era, ma sua madre gli aveva detto di stare tranquillo...

Lungo la strada avevano incontrato tanta gente che andava al mercato e lui si era accodato ad altri bambini a parlare e scambiare di figurine.

Chiacchierando, il tragitto gli sembrò breve e appena svoltata l'ultima curva, s'incominciavano ad intravedere le prime bancarelle. 

C'erano macchine parcheggiate lungo la strada e cominciava già la confusione. Al mercato, infatti, arrivavano anche cancellaresi e pietragallesi che venivano tutti in auto.

Le voci dei mercanti che urlavano vantando la loro mercanzia si confondevano tra loro ed intorno la folla di donne e bambini che guardavano tutto, s'accalcava ad ogni bancarella. 

Pur non dovendo acquistare nulla, la curiosità di vedere cose belle e novità, era sempre tanta per tutti. Gli uomini, più che i vestiti, cercavano attrezzi da lavoro, pantaloni di fustagno e scarponi da campagna, i bambini come Michele s'incantavano davanti ai dolciumi e alle bancarelle di giocattoli. Nonno Francesco gli aveva comprato il tamburo di plastica e lui lo aveva battuto felice fino a casa prendendosi più volte i rimproveri di sua madre.

Quella notte gli tornarono alla mente molti particolari del mercato e non seppe mai se fu un sogno o veri ricordi confusi nel dormiveglia inquieto.

Vedeva bambini con le trombette rosse che suonavano gonfiando a dismisura le gote, bambine con Cicciobello ancora inscatolato, altre con lunghe trecce che chiedevano mollette e nastri, bimbi piccoli che piangevano perché non volevano scendere dal cavalluccio rosso di plastica con le rotelle, ragazze che cercavano cappotti e vestiti e mamme che, pazienti, stavano dietro a tutto. 

Poi, improvviso, un profumo allettante stuzzicava le narici e come un miraggio nel deserto, bella tra le belle, apparve la bancarella più ricca e desiderata: quella dei dolciumi!

Un tripudio di colori invitanti danzava davanti agli occhi di Michele e tutto sembrava animarsi ed andargli incontro.

Mandorle tostate, ceste di fichi secchi, incartapecoriti dal forno, nascondevano al loro interno noci croccanti... e liquirizia, caramelle, coni finti...erano esposti in cesti colorati. 

Più in là, sulla stessa bancarella che sembrava grandissima, mucchi spropositati di noccioline, ceci e semi di zucca, facevano bella mostra di se.

Michele, ammaliato, prendeva a piene mani un po' di tutto. Riempiva le tasche di ceci e noccioline e mangiava uno dietro l'altro, rotolini di liquirizia che gli annerivano le dita. D'improvviso si fece silenzio e intorno non c'era più un'anima viva.

Solo lui e la bancarella golosa. Più nulla.

“Mange, mange..., doppe vide come te face male la panze!”

“Mangia, mangia…, dopo vedi come ti fa male la pancia!”

Michele si guardò intorno, ma non vide nessuno e continuò a mangiare.

“E te pare ca la fernisce! Baste chiù!”

“E ti pare che la finisci! Basta più!”

“Ohhh, ma chi sì? Che vuò?”

Ohhh, ma chi sei? Che vuoi?"

“Qua, guarde qua. Addo tiène a mènte?”

“Qua, guarda qua. Dove guardi?”

Dietro il mucchio di ceci abbrustoliti, accatastati in diversi colori, c'erano piccole file ordinate di torroni incartati a caramella.

Michele si stropicciò gli occhi e pensò che non potevano essere stati quelli a parlare, ma una fragorosa risata lo spaventò e sussultò.

“Ciuote! E chè, te pare ca mò i torrone e i mastacciuole parlene? Lu ciuote! Ahahahahhhhhhaaahhh.”

“Scemo! E che, ti pare che adesso i torroni e i mostacciuoli parlano? Lo scemo!”

Michele si sentì chiamare e si ritrovò davanti al suo lettino.

Aprì gli occhi confuso e vide sua madre che lo prendeva in braccio per rimetterlo a letto.

Era stato un sogno.

“M’hai fatte piglià na paure. Hai scettate nu gride! Mene male ca Nunzie nan se jè ruhugliate, ca jè ancore prèste!”

“Mi hai fatto prendere una paura. Hai mandato un grido! Meno male che Nunzia non si è svegliata, che è ancora presto!”

“Iè ore, mamme? Iè hore de scì arru mercate?”, chiese Michele, tutto contento e incurante di ciò che gli era appena successo.

“E’ ora, mamma? E’ ora di andare al mercato?”

“Michè, ru saie...quanne gredaste, stacive venènne a ruhugliàrete pe dìcete na cose. Lu siènte che viènte ca tire? Ha trate forte tutte la nuttate e ije nan agge pigliate suonne. Stache scènne arru Sculare a vedè che iè succièsse arre ulìve. Spèrame ca nan à fatte qualche huaje!”

“Michele, lo sai…quando gridasti, stavo venendo a chiamarti per dirti una cosa. Lo senti che vento tira? Ha tirato forte tutta la nottata e io non ho preso sonno. Sto andando allo Scolaro e vedere che è successo alle olive. Speriamo che non ha fatto qualche guaio!”

“E arru mercate nan ge sciame,allore?”

“E al mercato non ci andiamo, allora?”

“Figlie mije, se me sbrihe prèste, sciame, senò, nan te prèoccupà ca sabbete sciame arru nèhozie e t'accatte ijè 'ncuna cose!”

“Figlio mio, se mi sbrigo presto, andiamo, senò, non preoccuparti che sabato andiamo al negozio e ti compro qualche cosa!”

Michele si mise a piangere.

“Ru sapive! Mò vache a vedè re ulìve e chi ru sape quanne torne!”

“Lo sapevo! Adesso vado a vedere le olive e chi lo sa quando torno!”

Senza tante cerimonie, sua madre si alzò dal letto dove si era appoggiata.

“Oh, fernìscele e duorme! Te staije culcuate qua arru caude e ije mò vache fore. Ancore sò i sèije de lu matine. Passe ddo nònne e je diche ca vène quà. Quanne tòrne se ne parle.”

“Oh, finiscila e dormi! Te stai coricato qua al caldo e io adesso vado in campagna. Ancore sono le sei del mattino. Passo da nonna e le dico che viene qua. Quando torno se ne parla.”

Michele si tirò le coperte al collo e si nascose a piangere sul cuscino. 

In un attimo vide sparire la gioia di passeggiare per il mercato a guardare le bancarelle, a scegliere le scarpe nuove e il nuovo cappotto. Aveva sperato d'indossarlo all'arrivo di suo padre a Natale ed invece...il vento...ma proprio quella notte doveva tirare? Non poteva aspettare un altro poco? Non riuscì a prendere sonno e udì la mamma uscire e la nonna arrivare dopo poco.

Alle sette, tra gli ululati del vento, sentì la campana della chiesa, scoccare l'ora e si alzò arrabbiato.

Sua nonna stava accendendo la cucina a legna e appena lo vide gli chiese se voleva il latte.

Si sedette arrabbiato e non le diede conto. Sua nonna scaldò il latte e glielo mise davanti con dei biscotti.

“Avante, mange ca haia crèsce!”, disse la nonna.

“Avanti, mangia che devi crescere!”

La nonna, sapendo il suo cruccio, cercava di sdrammatizzare per tirarlo su, ma lui rimase imbronciato a lungo e non disse una parola.

Nel frattempo si era svegliata anche Nunzia.

Lei non sembrava dispiaciuta per la fiera, ma per la mamma che era andata, con quel vento, in campagna. Si sistemò, mangiò il suo latte e si sedette, accanto alla stufa coi suoi ferri, mentre la nonna preparava qualcosa da mangiare.

“Nonna, nan vaije arra mèsse?”

“Nonna, non vai alla messa?”, chiese Nunzia.

“Cèrte ca vache. Finche ai nove! Ntante fazze lu suche, accussì, quanne vène mammete, mangiame tutte qua e doppe se ne parle!”

“Certo che vado. Fino alle nove! Intanto faccio il sugo, così, quando viene tua madre, mangiamo tutti qua e dopo se ne parla!”

“E mamme quanne vène?”

“E mamma quando viene?”

“E pènze ca vène prèste. Ma Dìje sole ru sape!”

“E penso che viene presto. Ma Dio solo lo sa!”

“E doppe sciame arru mercate?”

“E dopo andiamo al mercato?”

“Doppe vedìme!”

“Dopo vediamo!”

Michele si era rinchiuso nella sua stanza a giocare con le figurine. Le guardava e riguardava. Le contava e le sistemava annoiato. Sdraiato sul letto ripensava al sogno della notte trascorsa e si sentiva confuso ed arrabbiato. Aveva atteso tanto quel giorno ed ora...

Alle nove, la campana della Chiesa invitò alla messa, ma Michele disse alla nonna che sarebbe rimasto a casa a studiare.

Non era la prima volta che restava solo e la nonna sapendo che poteva fidarsi, uscì con Nunzia.

In realtà, Michele aveva pensato al suo da fare e, appena fu solo, indossò una vecchia tuta, prese un cappello e uscì a sua volta.

Fuori c'era Donato coi pantaloni nuovi che stava andando al Paschiere.

“Oh, nan vìène arru mercate?”

“Oh, non vieni al mercato?”

Michele non gli rispose e, imbronciato, filò dritto con le mani in tasca verso l'uscita del paese. Aveva deciso di andare da sua madre.

"Mamme, addò si?”

“Mamma, dove sei?”

Il vento, ancora forte, riportò l'eco della flebile voce del bambino tra gli ulivi.

Seppur arrabbiato e deluso, aveva capito che sua madre aveva le sue ragioni per andare in campagna anche in quel giorno di mercato ed aveva deciso di andare ad aiutarla.

Felicetta, dal canto suo, era uscita di casa piangendo. Piangeva la sua sorte di moglie senza marito che doveva fare da madre e padre ai suoi figli, sembrando dura anche quando non voleva. Piangeva per il lavoro che mancava e che la costringeva a raccogliere olive dal padrone “ad haute” “a terzi” e senza giornate (senza essere ingaggiata). 

Piangeva per quel figlio arrabbiato che voleva solo un poco di svago...piangeva, mentre raccoglieva le belle olive ormai mature che luccicavano come perle nere appena sgusciate. 

Guardando l'abbondanza che era caduta in quella notte, si rincuorò e, lesta lesta, cercò di raccoglierne il più possibile, pregando che non piovesse, perché dopo il vento di solito arrivava la pioggia...

Sola coi suoi pensieri non badava all'ora e estraniata da tutto, non s'accorse subito del richiamo del figlio. Quando le parve di udire una voce, pensò fosse il vento e continuò il suo lavoro.

“Ohi mà, so tre ore ca te chiame!”, gridò Michele, ridendo.

“Ohi mamma, sono tre ore che ti chiamo!”

“Figlie de bona mamme, m’haije fatte piglià na pahure! E che faije qua?”

“Figlio di buona madre, mi hai fatto prendere una paura! E che fai qua?”

“So menute ad aiutarete! Forza, daije, muvìmene c’amma scì arru mercate!”

“Sono venuto ad aiutarti! Forza, dai, muoviamoci che dobbiamo andare al mercato!”

Felicetta lo abbracciò sorridendo e decise che quel figlio si meritava davvero un premio. Con la sua compagnia e il suo piccolo aiuto, raccolse quel che poté e dopo aver nascosto nel pagliaio i sacchi riempiti in mattinata, decise che era ora di tornare a casa. 

Nella strada del ritorno, accompagnati dal vento che si andava man mano calmando, madre e figlio, chiacchierarono allegri fino a casa dove la nonna aveva preparato un bel sugo.

I nonni mai avrebbero pensato che Michele sarebbe andato fino in campagna da sua madre. Pensavano fosse in giro a giocare e rimasero stupiti quando Felicetta glielo raccontò.

Pranzarono in fretta e a mezzogiorno erano tutti in cammino verso il mercato. Michele, finalmente contento, acquistò le sue belle scarpe nuove ed il cappotto e la mamma comprò pure i torroni e le nocelle per Natale.

Lui osservò divertito tutto e scrutò ben bene la bancarella dei dolci per vedere se qualcosa si muovesse...ma nulla.

Tutto era stato un bel sogno!

Il giorno dopo l'Immacolata, Michele, tutto contento per i suoi vestiti nuovi, si mise a fare il presepe. Di solito lo faceva l'otto pomeriggio, ma dato che erano andati al mercato ed era tornato stanco, aveva rimandato.

Il muschio l'aveva raccolto qualche giorno prima nell' orto e l'aveva messo ad asciugare un po', dato che era bagnato.

In casa sua facevano il presepe da sempre.

La mamma ci teneva ed anche se i pastorelli che possedevano erano pochi, diceva che bastava il simbolo. 

Fin da piccolo, aspettava quel periodo impaziente e, da un paio di anni, la mamma glielo faceva fare da solo. 

Qualche giorno prima aveva chiesto al nonno se poteva andare con lui all'orto e il nonno l'aveva accontentato, anzi, gli aveva tagliato lui stesso dei ramoscelli di pino.

Gli anni precedenti lo avevano sempre fatto all'ingresso, su un mobiletto appendiabiti, ma quell'anno aveva deciso di farlo in cucina. Sua madre non voleva, ma poi aveva acconsentito.

“Mamme, se nuije stacìme sèmpre nta la cucine, chi lu vède lu prèsèpie nta lu corridoije?”

“Mamma, se noi stiamo sempre in cucina, chi lo vede il presepio nel corridoio?”

“Ma che dice, iè bèlle appène aprime la porte, lu vedìme pe prima cose e pò addo lu faije 'nta la cucine ca nan c'è spazzie?”

“Ma che dici, è bello appena apriamo la porta, lo vediamo per prima e dove lo fai in cucina che non c’è spazio.”

“Tu lassa fà a mive!”

“Tu lascia fare a me!”

Stringendo le spalle lo lasciò fare perché sapeva che tanto l'avrebbe avuta vinta sempre lui...

Michele era un piccolo testone quando s'impuntava in qualcosa, ma sua madre in cuor suo era orgogliosa di quel figlio tanto assennato e giudizioso anche se aveva il suo caratterino.

Un caratterino da lucano, in fondo!

L'angolino l'aveva adocchiato già da tempo, lui...

Una sera, mentre giocava a dama con la sorellina, sdraiati per terra, aveva pensato che il presepe a terra, ci sarebbe stato benissimo.

Accanto alla cucina a legna, dove c'era la cesta piena di tronchetti tagliati a misura. Bastava spostarla sotto il tavolino con la tendina, dove poggiavano l'olio, il sale ecc. e lo spazio era perfetto.

Ogni giorno studiava come fare per non arrivare impreparato e finalmente quel nove di dicembre poté realizzare la sua opera.

“Cumma Marije”, una vicina di casa, gli aveva regalato un pezzo di fodera blu scuro e insieme alla sorellina, nelle prime sere di dicembre, avevano creato e colorato delle stelline di carta da attaccare con la colla.

Fissò il cielo stellato con delle puntine e, poi, a terra, modellò, qua e là, con fogli di carta appallottolata, delle montagnole. Le rivestì col muschio e appoggiò al muro i rametti di pino raccolti dal nonno. Ai rametti attaccò altre stelline.

Da un angolo del boschetto fece scaturire un bel fiumiciattolo, anche quello dono di sua zia...

“Cumma Marije” aveva una scatola dove raccoglieva un po' di tutto: bottoni, vecchie cerniere, nastri, lacci, pezzi di stoffa...e il fiume, altri non era che un bel pezzo di stoffa azzurra che lei stessa gli aveva tagliato a misura.

Ogni volta che a Michele serviva qualcosa che in casa non aveva, era certo che dalla “cummare” l'avrebbe trovato.

Poggiò dei sassolini lungo le sponde, per trattenere la stoffa e poi si dedicò alle stradine di segatura che aveva raccolto nella falegnameria di “Maste Tucce Pèpe”, “’mpiède la tèrre.” 

A dire la verità era una segatura un po' grossolana, ma l'effetto che dava a lui piacque e decise di lasciarla.

La grotta la mise al centro della scena circondata dal boschetto. In estate aveva messo via tutta la carta della bottega di “Chelucce Papà”, proprio per quello scopo e c'era voluto tanto perché non si andava tutti i giorni al negozio...

Aveva lavorato inginocchiato a terra e si alzò a vedere l'effetto.

La grotta stava proprio bene al centro e là davanti sparpagliò un po' di sabbia che aveva raccolto in un cantiere vicino alla scuola elementare, dove stavano ristrutturando una casa.

Appena fu soddisfatto del risultato, prese la scatola di latta dove custodiva i pastorelli.

La natività era in terracotta molto vecchia perché sua mamma un tempo aveva solo quella, poi negli anni avevano aggiunto i pastorelli di plastica che vendeva “Tarèse de Trubbeche.” Uno o due all'anno, non di più. Di plastica erano anche il bue e l'asinello e le pecorelle che mise ai lati della grotta come a voler guardare dentro, curiose.

Mise in un angolo la Madonna col mantello ormai sbiadito e dall'altro San Giuseppe appoggiato al suo bastone. Al centro la mangiatoia vuota e passò a sistemare il resto.

Una lavandaia con la cesta sul capo, vicino al fiume, il ponticello di legno che gli aveva fatto il nonno, un cacciatore nel bosco, due pastorelli ad osservare da lontano, un bambino col cane, una madre con bambino, un pescivendolo con una cesta di pesci, una vecchietta che filava, una pastorella con una gallina in mano e i tre re Magi, tutti uguali, tranne uno che aveva il volto più scuro, li mise sulla stradina.

A scuola, la maestra gli aveva insegnato a fare le casette di cartone e lui ne aveva fatte già quattro che posizionò in vari punti.

Mancava solo la stella cometa che aveva deciso di mettere sempre per ultima. Che bella la stellina! La teneva come una reliquia perché ogni anno perdeva la porporina argentea che la ricopriva. Era avvolta da un pezzo di stoffa come gli aveva suggerito sua madre ed era chiusa a parte. Era molto delicata e ogni volta che la poggiava sulla grotta s'incantava a guardarla per un pezzo. L'avevano comprata solamente qualche anno prima. Prima ne mettevano una di solo cartone e si era rovinata.

Michele era solo in casa e tutto contento aspettava il ritorno di sua madre dalla campagna. La sorellina era dalla nonna e lui ne aveva approfittato per lavorare in santa pace. Cercò d'immaginare le loro reazioni quando s'accorse di una cosa a cui prima non aveva fatto caso...mancava qualcosa...l'Angelo! 

Il suo presepe non aveva un angelo!

Lì per lì pensò di andare a disegnarlo, ma poi gli venne in mente una cosa.

Mamma gli aveva promesso che sarebbero saliti al Paschiere prima di Natale e aveva deciso! Lo avrebbe comprato coi soldi che gli erano rimasti del regalo di compleanno! 

Mentre pensava tra sé, si aprì la porta. Mamma era tornata, insieme alla sorellina.

“Come iè belle, Michè!”, gridò la sorellina festante, correndo verso il presepe.

“Come è bello, Michele!”

“Mamme, te piace?”, chiese Michele.

“Mamma, ti piace?”

“Michè, sè, iè proprie bèlle, auànne!”, rispose sorridendo sua madre, guardando tutti i particolari del piccolo presepe fatto a terra in quell'angolino della sua cucina.

“Michele, si. È proprio bello, quest’anno!”

“Craije l’amma fa vedè pure ai nonne!”

“Domani dobbiamo farlo vedere anche i nonni!”

“E cèrte che sì. Craije se ne parle!”

“E certo che sì. Domani se ne parla!”

Era molto contento Michele e, aggiustando qualcosa qua e là, andava cercando il modo giusto per dire a sua madre dell'Angelo, ma sapeva già in cuor suo come sarebbe andata a finire.

Un presepe senza angelo, che presepe è?

Non sapeva ancora il piccolo Michele, che con gli anni il presepe sarebbe diventato un'opera d'arte con luci, ombre, movimenti, acqua vera e quant'altro.

Michele e Nunzia erano molto contenti perché stava per ritornare il loro papà dalla Germania.

Finalmente stavano per cominciare le vacanze di Natale e, siccome pioveva spesso, passavano il loro tempo tra casa dei nonni e quella della zia Rosa, che abitava vicino.

Quando poteva, appena usciva uno sprazzo di bel tempo, la madre correva all'uliveto a raccogliere le ultime olive, ma, dopo il vento dell'Immacolata, non aveva fatto altro che piovere e per i poveri contadini era uno strazio lavorare nel fango, ma, del resto, il prezioso frutto non si poteva lasciar marcire e ci si arrabattava, come si poteva. 

A suo tempo, nonno Francesco aveva costruito “lu pagliare” con canne di recupero e due lastre di “ramère”, che serviva da piccolo rifugio in caso di pioggia e ogni volta sembrava che il vento lo volesse spazzar via, ma resisteva temerario a burrasche e temporali, come se volesse adempiere al suo compito ancora per molto.

La cucina di nonna Giulia profumava sempre di qualcosa di buono.

L'ultimo giorno di scuola, appena svoltato l'angolo della via di casa, si spandeva nell’aria un delizioso profumino di fichi al forno. La nonna, infatti, stava preparando i fichi, seccati al sole durante l'estate, e poi imbottiti con noci o mandorle ed infornati. 

La nonna metteva sul fuoco la padella ripiena d’olio per friggere “re pèttule” e “re scarpèdde” e “i panzèrotte che i cìcere”, che erano i dolci di Natale un po' in tutte le case del paese e del circondario e insieme alle castagne, alle noci e a qualche nocciola, non mancavano quasi mai a fine pranzo o per passare qualche ora in compagnia di amici e parenti con un buon bicchiere di vino fatto con l’uva della vigna di nonno Francesco allo Scolaro.

Fuori faceva freddo, ma dentro, con la cucina a legna che andava a tutto spiano, c'era un bel calduccio. 

Michele buttò la cartella su una sedia all'ingresso e corse a sedersi a tavola dicendo che era affamato, ma nonna Giulia lo spedì prima a lavarsi le mani. Il nonno sedeva vicino alla cucina ed attizzava il fuoco con la sua aria pacata. Era un tipo di poche parole e da quando aveva “preso la pensione”, passava il tempo in piazza e all'orto vicino a casa. 

La tavola era già apparecchiata per quattro e la nonna scodellò nei piatti un'invitante pasta e fagioli, che i bambini divorarono con gusto e senza fare storie.

Erano abituati a mangiare tutto ciò che trovavano in tavola, anche le verdure e i peperoni. Non erano tempi di capricci, quelli!

“Nonna, me daje na fica sèccate?”, chiese Michele alla fine del pranzo.

“Nonna, mi dai un fico secco?” 

“Cèrte ca te la dache, pe vuje r’agge fatte. Ijè e nònnete na ne putime mangià, ca na re putìme rusucuà... sole ca haja aspettà ca se dufrèddene, ca ancore sò caude caude. Chiù tarde te re mange.”

“Certo che te lo do, per voi le ho fatte. Io e tuo nonno non ne possiamo mangiare, perché non le possiamo masticare...solo che devi aspettare che si raffreddino, che ancora sono calde calde. Più tardi te le mangi.”

Verso le quattro, tornò la mamma dalla campagna. Era visibilmente stanca ed infreddolita e Nunzia le saltò al collo e l'abbracciò contenta di rivederla. Dai nonni stavano bene, ma tornare tutti insieme a casa, la sera, era sempre un piacere. 

Rimasero ancora un'oretta chiacchierando del più e del meno e verso le cinque, quando già fuori era buio anche per il maltempo, tornarono a casa loro.

Michele e Nunzia erano eccitati perché l'indomani aspettavano il ritorno del papà dalla Germania.

Sapevano che era già in viaggio perché era molto lontano e il treno doveva attraversare tutta l'Italia per riportarlo a casa. 

Poi c'era la strada dalla Stazione Inferiore al paese e ci voleva la macchina a noleggio per andare a prenderlo. Siccome viaggiava in gruppo con altri paesani, chiamavano “Pèppe Abbatiste, lu noleggiatore”, un signore che faceva un viaggio per tutti come all'andata e le famiglie non avevano l'impiccio di andare pure loro, ma attendevano a casa il ritorno dei loro cari. 

Michele sognava, in cuor suo, di andare un giorno alla stazione. Ne aveva vista una alla televisione, una volta. C'era tanta confusione e i treni erano grandissimi e lunghissimi! 

Tutti portavano valigie e si sentiva il fischietto del capo treno.

Doveva chiedere a papà di raccontargli meglio com'era la stazione...era proprio curioso di saperlo.

“Mà, craie amma scì a coglie re ulive?”

“Mamma, domani dobbiamo andare a raccogliere le olive?”

“Se nan chiove, sì. Fernìme d’accòglere, accussì re pulzame na botte e doppe Natale re maciname, quanne nc'è papà.”

 “Se non piove, sì. Finiamo di raccoglierle e dopo Natale le maciniamo, mentre c'è papà”

Era da poco finito il Carosello, e come al solito, per loro era ora di andare a dormire. La mamma, invece, restava sempre sveglia a lavare, rammendare, pulire qualcosa ecc. e andava a letto più tardi facendo in modo di non disturbare i bambini.

Nella stanzetta, i due fratellini non presero, però, sonno subito. Erano eccitati all'idea del ritorno del papà e facevano a gara ad indovinare cosa avrebbe portato stavolta.

“Re cioccolate, securamènte!”, disse Nunzia.

“Le cioccolate, sicuro!”

“Quèdde re porte sèmpe e pure re caramèlle...”

 “Quelle le porta sempre e pure le caramelle.”

Come tutti i bambini, desideravano dolciumi, perché non li mangiavano tutti i giorni, ma ogni volta che papà, uno zio, un qualsiasi parente o amico tornava “dall'estero”, la provvista di cioccolata e caramelle era assicurata per un bel po'. 

Lo facevano tutti e anche il loro papà, andando a salutare i parenti, come era usanza, portava loro qualche cioccolata, caffè, zucchero...roba tedesca. 

Ed erano molto graditi, anzi, s'offendevano se qualcuno non portava niente. 

Quel Natale sarebbe stato bellissimo, tra la frutta secca della nonna, i torroni e le nocelle che la mamma aveva comprato “arru mercate de lu Paschière” e la cioccolata della Germania...

Michele e Nunzia s'addormentarono felici quella sera, nonostante i tuoni e i lampi del temporale che era scoppiato all’improvviso.

Il giorno dopo, Michele e Nunzia si svegliarono con un forte temporale e Felicetta, non potendo andare in campagna, si mise a pulire casa da cima a fondo, aiutata dalla piccola Nunzia che voleva spolverare, mentre Michele rimase sdraiato a letto leggendo svogliatamente un fumetto che gli aveva passato l'amico Donato. 

Il suo pensiero era al ritorno del padre previsto per il pomeriggio e non vedeva l'ora di riabbracciarlo.

Verso mezzogiorno smise di piovere e, dopo mangiato, sua madre gli consigliò di cominciare a fare qualche compito di scuola, ma non aveva nessuna voglia di aprire i libri chiusi a malapena da un giorno e decise invece, di andare a trovare Donato che abitava vicino per giocare un po' a carte. 

Nunzia aveva finito la sciarpa per il suo papà già da qualche giorno e ogni tanto la stendeva sul letto e la guardava, accarezzandola orgogliosa e immaginando il momento della consegna.

Il tempo sembrava scorrere lento nell'attesa, ma finalmente, tra una sbirciata all'orologio e una alla finestra, s'udì fermarsi una macchina giù nella via e Michele corse veloce a vedere.

Era tornato papà dalla Germania!

Udendo un po' di frastuono, qualcuno osservava dietro le finestre e altre vicine si erano affacciate al balcone o all'uscio per vedere. 

Era sempre così... tutti volevano sapere di tutti.

Rocco, educato, salutò con un cenno le vicine e abbracciò il figlio festante che saltellava come un grillo. Poi salutò la moglie e la figlioletta.

Il noleggiatore aveva aiutato a scendere le valigie e già pagato, salutò e ripartì.

Una volta in casa, la famigliola sembrò un fiume in piena di domande e risposte veloci.

“Come staije?... Che haije fatte?...Hai mangiate, sì stracque...”

“Come stai?...Che hai fatto?...Hai mangiato?, sei stanco?...”

“Come sciate arra scole?... Che se dice 'nta lu pajise?... I tuije come  staijne?...”

"Come andate a scuola?...Che si dice in paese?...I tuoi come stanno?"...

In pochi attimi c'era voglia di raccontarsi mesi e mesi di lontananza con la paura inconscia di non avere il tempo materiale di farlo con calma, ma era solamente l'ansia e la contentezza dell'abbraccio familiare tanto desiderato da ambo le parti.

Dopo i convenevoli e i saluti, arrivò per i bambini il momento tanto atteso e desiderato: l'apertura delle valigie di papà era sempre uno spettacolo...

“Papà, che m’haije purtate?”, gridò Michele.

“Papà, che mi hai portato?

“Che t’agge purtate, che t’agge purtate...e mo ru vide, no?”

“Che t'ho portato...che t'ho portato...ora lo vedi, no?”

Rocco poggiò una delle due valigie sul tavolo della cucina e cominciò ad aprirla pian piano, scherzando coi figli impazienti.

Felicetta sorrideva contenta mentre preparava il caffè.

Era felice di riavere, anche se per poco tempo, il marito a casa e le feste sarebbero state più belle, tutti insieme riuniti.

La curiosità di Michele non rimase delusa. Come già le altre volte, suo padre aveva portato per loro pacchi di caramelle e tavolette di cioccolata di tanti gusti. 

Per un attimo si rivide a tuffare le mani nei mucchi della bancarella di dolciumi del sogno, ma quello non era un sogno, era tutto vero e, tra non molto, presagiva già una bella scorpacciata!

Quando il caffè fu pronto, la mamma scartò una tavoletta di fine cioccolato tedesco e la divise in quadretti per tutta la famiglia, mentre i bambini curiosi, aspettavano di vedere tutto il resto del contenuto della preziosa valigia. Il padre li accontentò subito.

“Re caramèlle e re cioccolate re stipe mamme e ve re daije a picche a picche, senò ve re mangiate totte na vote e pò ve vène lu male de panze. Chiste, mmèce, sò i vuoste.”, disse Rocco porgendo loro due grandi buste.

“Le caramelle e cioccolate le conserva mamma e ve le dà a poco a poco, sennò ve le mangiate tutte in una volta e dopo vi viene il mal di pancia. Questi, invece, sono vostri.” 

Una grande scatola con tantissimi colori a matita e “a spirito”, apparvero agli occhi di Michele che s'illuminarono.

“Come sò bèglie, grazie papà!!! Me servìvene proprie arra scole!”

“Come sono belli, grazie papá!!! Mi servivano proprio a scuola!”

Insieme ai colori, c'era una motocicletta con un poliziotto sopra e Michele, felice, cominciò subito a giocare sdraiandosi a terra.

Anche la busta di Nunzia conteneva gli stessi colori e in più una bambola dai capelli biondi che luccicavano come fossero di seta. Anche lei fu felicissima e abbracciò il papà contenta.

Le sorprese non erano, però, finite. Dopo qualche regalino anche per la mamma, Rocco tirò fuori una bella scatola rosa e, porgendola alla moglie, disse che quello era un regalo per tutta la famiglia.

Quando Felicetta l'aprì, rimasero tutti a bocca aperta.

Delle bellissime sfere di vetro colorato facevano capolino da fogli di carta velina. 

Felicetta la spostò delicatamente e sotto la luce della lampadina, si rifletterono verso il soffitto mille riflessi d'arcobaleno.

“E che sò, quèsse? Come so bèlle!!!”, chiesero quasi tutti insieme.

“E cosa sono quelle? Come sono belle!!!

“Ah, mène male ca nan se so rotte, sò palline pe l'albere de Natale.”

“Ah, mano male che non si sono rotte, sono palline per l’albero di Natale.”

“L'albere de Natale? Ma nuie nane tenìme!”, rispose lesto Michele con la sua parlantina.

“L’albero di Natale? Ma noi non ce l’abbiamo!

“E che i face? L’accattàme!”, rispose suo padre.

“E che ci fa? Lo compriamo!”

Felicetta e Nunzia, intanto, andavano ammirando una ad una le preziose palline di vetro e scoprirono che la scatola aveva due ripiani. Sotto c'erano altri modelli a goccia e un bellissimo puntale rosso e argento.

Avevano paura di romperle tanto erano fini e delicate e dopo averle fatte vedere ben bene a tutti, la mamma le risistemò nel loro contenitore a scomparti. 

A parte, c'era anche una ghirlanda con trenta lucine a forma di fiorellini che mai avevano visto prima.

Anche da loro era arrivato il Natale, quello luccicante e prezioso della Germania.

“Papà, l’haije viste lu presèpie mije?”

“Papà, l’hai visto il mio presepe?

“Ah, che bèlle. E brave Mechèle mije, ca staije duhuntanne nu mastre!”

“Ah, che bello. E bravo Michele mio, che sta diventando un mastro!”

“Te iè piaciute, papà? Hai viste, però, ca manche na cose e na la tenìme.”

“Ti è piaciuto, papà? Hai visto, però, che manca una cosa e non l’abbiamo.”

“E che manche, vuò ca 'nce mettime re luce? Quèste c’agge annùtte!”

“E che manca, vuoi che ci mettiamo lòe luci? Queste che ho portato?”

“Papà, manche l'Angele! Cudde sope la grotte!”

“Papà, manca l’Angelo! Quello sopra la grotta!”

“Ah...e vabbuò, doppe l’accattame. Se craije nan chiove, sciame arru mercate, che decìte?”

“Ah…e va bene, dopo lo compriamo. Se domani non piove, andiamo al mercato, che ne dite?”

“Rocche, ma nan sì stracque? Doppe stu viagge... sciame n’auta dìje”, riprese Felicetta.

“Rocco, ma non sei stanco? Dopo questo viaggio… andiamo un altro giorno.”

“No, sciame craije, se nan chiove.”

”No, andiamo domani, se non piove.”

E così rimasero.

A cena vennero i nonni a salutare il genero appena rientrato e dopo si portarono Nunzia a dormire con loro.

Ancora una volta, Michele s'addormentò eccitato come già per l’altro mercato e quella sera pregò che non piovesse l'indomani.

Alle sei, la mamma lo svegliò e fu contento di sapere che il tempo era bello, anche se non sapevano com'era altrove.

Si prepararono ed uscirono in piazza. Alla fermata dell'autobus c'erano altri paesani che aspettavano e tutti salutarono Rocco, perché si conoscevano e sapevano che era fuori per lavoro.

Non era la prima volta che Michele andava in città, ma ogni volta per lui era una piccola avventura e una nuova scoperta.

Era così grande l'autobus!

Ci potevano entrare molte persone insieme e tutti chiacchieravano tra di loro. E poi era così bello guardare fuori dal finestrino. Tutto sembrava correre veloce e lui si divertiva ad inventare storie fantastiche.

Lo vide arrivare dalla parte di sotto e fermarsi davanti a loro. Salirono e presero posto. Lui accanto alla mamma, naturalmente vicino al finestrino e papà si sedette dietro a loro chiacchierando con un paesano. 

Il controllore fece i biglietti scherzando con lui ed il viaggio iniziò. Il sole cominciava a sorgere e le nuvole si tingevano di un rosa che andava sbiadendo a seconda dei raggi. Il piccolo passeggero rimase incantato a vedere tutto lo spettacolo e davanti ai suoi occhi passavano case, alberi, vie, altri mezzi...

Nelle case si andavano accendendo le luci e si aprivano le imposte. 

Il mondo si stava svegliando.

Nei paesi c'erano le varie fermate e salivano altri passeggeri tutti diretti in città.

A giorno ormai fatto, quasi vicini, s'incominciavano ad intravedere i palazzi della cittadina in lontananza. Erano diverse le case da quelle del paese.

Agli occhi di Michele era tutto più grande e più bello.

Al capolinea scesero tutti i passeggeri e si sparpagliarono.

Michele, tutto contento, prese per mano suo padre e s'incamminarono verso il mercato.

Il cielo era nuvoloso, ma le bancarelle c'erano tutte.

Belle, stracariche di roba e tutt'intorno era rumoroso e affollato.

Era la vigilia di Natale e tutti facevano acquisti a modo loro.

Anche la famigliola fece i suoi giri e i suoi acquisti e non mancarono di comprare l'angioletto per il presepe.

C'era una scatola piena di angeli tutti uguali e Michele li guardò incantato. Le alucce dorate, spiegate in volo, e in mano reggevano un nastro con scritto “Alleluia”.

Erano tutti biondi e ricci e indossavano una tunichetta bianca. Sulla scatola c'era il prezzo: 300 lire.

“Avante, quale vuò?”, chiese sua madre e lui ne prese uno che sembrava più sorridente...

“Avanti, quale vuoi?” 

Il venditore glielo incartò con un pezzo di giornale e glielo consegnò facendogli l'occhiolino. Poi rivolto alla madre cercò di venderle qualcos'altro, ma Felicetta fu irremovibile e s'allontanarono dopo aver pagato.

Il mercato era molto grande e a Michele sembrava tutto bello perché c'era un posto dedicato alla frutta e verdura, uno alle scarpe e vestiti e altre zone erano piene di bancarelle di cose per la casa. C'erano molti bambini come lui, insieme ai genitori e tutti giravano nella bolgia che, in lungo e in largo, osservava, toccava, chiedeva i prezzi, contrattava, acquistava, assaggiava...

Il mercato sembrava un enorme drago che aveva ingoiato tutti insieme alla mercanzia e non riusciva a digerire, tanta era la roba...

Michele sembrava piccolo piccolo nella folla che spingeva e s'accalcava e a tratti aveva persino paura di perdere la mano del padre o della madre e di non ritrovarli più, ma per fortuna ne uscì indenne e, stanco e coi piedi doloranti, si ritrovò finalmente seduto al suo posto sull'autobus, pronto a ripartire.

Il tempo sembrava essere volato e Michele, con lo sguardo ebbro di tutte le cose che aveva visto in quella fredda mattina di dicembre, si addormentò stremato appoggiando la testa al fianco di sua madre.

Lei lo sistemò meglio e lo chiamò solo appena giunti alle porte del paese, quando si risvegliò un po' intontito e con le gambe indolenzite. Era proprio crollato, ma anche dispiaciuto di aver perso lo spettacolo del ritorno.

A casa trovò i nonni che stavano preparando la cena per la vigilia e un profumino di baccalà lesso con la cipolla, gli ricordò che aveva mangiato solo un panino ed aveva fame.

La piccola cucina era in fermento e un forte odore di cavolfiore aveva invaso tutta la casa.

Michele aveva placato la fame con qualche biscotto senza nemmeno sedersi a tavola, tanto era contento, e poi era corso a sistemare il suo angelo sulla grotta.

Papà, dopo aver messo anche lui, in fretta, un boccone sotto i denti, uscì senza dire nulla e le donne di casa rimasero a chiacchierare davanti alla stufa a legna. 

I bambini giocavano coi giocattoli nuovi appena avuti in dono e a loro si erano uniti i cuginetti, che erano, però, più piccoli di loro e Michele si divertiva a fare il capobanda.

Rocco rientrò verso le tre e aprì la porta con un gran frastuono, al che, tutti corsero a vedere.

Stava tirando dentro un grosso ramo di albero indefinito e tutti lo guardarono stupiti senza capire a cosa servisse. Aveva con se anche un secchio con dei sassi dentro e vi adagiò il piccolo tronco senza farlo cadere.

“Ecche, Michè! Tenìme pure nije l'albere de Natale!”, esclamò contento.

“Ecco, Michele! Abbiamo anche noi l'albero di Natale.”

“Tu sì pacce!”, fece di rimando Felicetta, sorridendo.

“Tu sei pazzo!” 

“Muòvete, piglie re palline ca hagge purtate ajière!”

“Muoviti, prendi le palline che ho portato ieri!”

I vecchi genitori osservavano senza capire e Rocco spiegò loro che in Germania era una moda addobbare gli alberi con luci e palline e quell'anno voleva essere lui il primo a portare quell'usanza in paese.

Misero intorno all’albero prima le luci piccole e, poi, tutti insieme, misero le belle e fragili palline tra i rami infreddoliti.

Il loro primo albero di Natale faceva la sua bella figura nell’ingresso, vicino alla specchiera e al porta ombrelli. I bambini guardavano meravigliati le piccole luci che si spegnevano ad intermittenza e creavano mille riflessi sulle pareti, con la lucentezza delle palline...sembrava una magia e non si staccarono da lì, anzi si portarono dietro i giocattoli per giocare là vicino nonostante il freddo.

I grandi, seduti al tavolo di cucina, chiacchieravano e gli uomini giocavano a carte rosicchiando qualche castagna e qualche nocciolina americana, accompagnandole con un bicchiere di vino. 

Era arrivato anche lo zio Antonio, che studiava a Salerno.

Era un Natale semplice, ma caloroso. Fatto di unione e di rispetto reciproco.

La sera scese lentamente e Michele, felice di avere tutta la famiglia riunita, progettava già per l'indomani di invitare i suoi amici a vedere il bell'albero che gli aveva fatto il suo papà. 

Sicuramente in paese lo avevano solo loro, chissà...

Non erano poveri. Erano lavoratori che sapevano risparmiare e si sapevano adeguare come tutti, di quei tempi, e le feste comandate erano un'occasione importante per ringraziare il buon Dio della Provvidenza che li aiutava sempre e anche per questo, andarono tutti insieme alla messa di mezzanotte.

Fuori, senza il calduccio rilasciato dalla cucina a legna, faceva molto freddo, ma la Chiesa non era molto lontana e già dalla strada si udivano i canti natalizi.

Quando arrivarono era quasi piena, in quanto tutto il paese era presente a quell'immancabile appuntamento e, anche se ogni tanto gli occhi si chiudevano da soli, Michele cercò di seguire tutta la funzione, fino a svegliarsi del tutto, quando il parroco fece una piccola processione mostrando a tutti Gesù Bambino, prima di adagiarlo nel presepe allestito accanto all'altare.

Era bellissimo...tutto era bellissimo in quella notte. Anche l'essere lì tutti riuniti, invece che ognuno nelle proprie case. Era Natale!

Finita la messa, tornarono a casa e si scambiarono gli auguri e, con grande gioia di tutti i bambini del paese, fuori s'udiva una bella sorpresa: erano giunti gli zampognari ad allietare l'aria già dolce della festa.

Rimasero tutti insieme ad ascoltarli un po' e poi si salutarono stanchi, prendendo ognuno, la via di casa.

Quella notte s'addormentò tardi, ma era stato il giorno più bello dell'anno per Michele.

Era felice come nessun altro. Nel suo animo bambino non sapeva spiegarsi perché, ma sentiva di essere felice e non chiedeva null'altro che vivere sereno insieme ai suoi cari.

Passato il S. Natale in serenità, Michele sapeva che i giorni seguenti sarebbero stati un po' frenetici.

Per il ventisette, avevano, infatti, in programma di uccidere il maiale, che loro allevavano ogni anno in uno sgabuzzino nell' orto vicino casa.

L'uccisione del maiale era sempre una piccola festa, ma era straziante udire echeggiare le urla di terrore del povero animale da ogni angolo del paese. Michele e Nunzia venivano sempre spediti altrove, lontano da casa e potevano ritornare solo verso mezzogiorno quando il momento più cruento si era già svolto. 

Non era bello far vedere ai bambini un simile scenario, ma qualche temerario che voleva curiosare c'era sempre, nascosto o in bella vista a godersi lo spettacolo.

Michele non aveva ancora quella curiosità, ma sapeva quello che succedeva ai poveri animali.

La cosa che non capiva fino a qualche anno prima era il perché s'accudisse con tanta cura un maiale, dandogli sempre da mangiare e poi ucciderlo... Poi, col tempo, capì...

In quelle occasioni si riunivano i parenti più stretti e qualche vicino e ci si aiutava a vicenda.

Era, infatti, un lavoro molto impegnativo e richiedeva tante braccia.

Era sempre una persona esperta ad uccidere il povero maiale con un coltello lungo ed affilato, “lu scannature”, mentre tanti uomini lo tenevano ben stretto. Una donna forte, che non doveva dispiacersi, s'accingeva lesta lesta a raccogliere il sangue del povero malcapitato, girandolo in continuazione per non farlo coagulare.

Quello, con l'aggiunta di cacao, zucchero ed aromi vari, sarebbe diventato un dolce per grandi e bambini, “lu sangicchije.” 

Il maiale, una volta ucciso, si doveva pelare e per questo servivano i grandi calderoni di acqua bollente. Veniva bagnato con acqua caldissima per ammorbidire le setole e si procedeva a ripulirlo ben bene con affilati coltelli. Dopo questo lavoro certosino, si issava con le corde e la forza delle braccia degli uomini e si appendeva “arra vucculècchie” fissata al tetto del locale per le due zampe posteriori ben legate e veniva squartato. 

In men che non si dica, veniva tutto svuotato dagli uomini, mentre le donne raccoglievano la carne in varie bacinelle e contenitori. 

Una cosa da fare velocemente era quella di svuotare la vescica, sciacquarla e gonfiarla con un pezzo di pasta a cannuccia (“i ziti”). Raffreddandosi, non si sarebbe più gonfiata ed, invece, quel palloncino serviva a fare da contenitore ad un buon salume o riempirlo di sugna.

All'epoca, avveniva tutto all'aperto o in qualche “lammione” e non mancavano capannelli di curiosi intenti a godersi il crudele spettacolo, mentre le donne di casa, sempre maliziose, ripetevano mentalmente, degli scongiuri perché “nan lu pegliàssere ad’uocchije”. Infatti, era molto viva la credenza del malocchio e bastava uno sguardo jettatore a far andare a male mesi di lavoro e tanti denari al vento...perciò tutto il lavoro doveva avvenire in modo lesto e sbrigativo, in un via vai frenetico che contagiava tutti. Poi, finito il lavoro, si procedeva con comodo.

Era un lavoro da esperti, tagliare i pezzi di carne da suddividere per i pregiati salumi e per quelli più “giornalieri”, i pezzi da fare a “carne salata” (pancetta) e i prelibati capocolli.

Tutto procedeva regolarmente come una piccola catena di montaggio familiare. Si sceglieva, si scartava, si puliva, si tagliuzzava e niente si buttava. 

Quando non esistevano ancora i tritacarne, i grossi pezzi venivano tagliuzzati tutti a mano in cubetti che sarebbero, poi, diventati salsicce.

La pasta di carne veniva ammassata “’nta na zuppière” o “sope lu tumbagne” e salata e pepata in abbondanza col peperoncino lucano tritato. Le mani esperte di nonne e mamme sapevano le quantità ad occhio, e non sbagliavano mai. Impastavano e lasciavano a riposo fino al giorno dopo.

Michele e Nunzia tornarono a casa verso mezzogiorno. Erano stati da una cugina della mamma che si era offerta di tenerli per quella incombenza ed ora li aveva accompagnati per aiutare a loro volta.

Quando arrivarono nella via, la nonna stava spegnendo il fuoco sotto la “caudare”, mentre la mamma aveva già ben lavato il grosso delle budella, “re stentìne”, che dovevano essere riempite di carne.

Quello era un compito increscioso, ma da fare per bene visto che le budella servivano proprio a fare i salumi.

In casa, sulla cucina a legna, in una grossa "tijèlle", la nonna stava cucinando degli appetitosi pezzi di carne fresca che sarebbe stato il loro pranzo. Un invitante profumino di spezzatino al vino si spandeva nell'aria e i bambini non vedevano l'ora di assaggiare. 

La cucina era in pieno fermento. 

Su un tavolo messo apposta, papà e lo zio stavano finendo di spolpare “’na pacche” e mettevano tutto in una grande “spase”, mentre un'altra cugina tagliuzzava a pezzettini, veloce veloce.

Dopo una buona mezz'oretta, alle cugine si unirono anche la zia e la mamma a tagliuzzare. Le budella erano ormai lavate e le avevano lasciate in ammollo con qualche goccia di limone per farle indurire. Poi le avrebbero risciacquate per bene. Tutto procedeva alla perfezione e i bambini curiosavano qua e là, ma senza intralciare il lavoro.

Quando la carne risultò ben cotta, la nonna decise che dovevano sospendere e mangiare tutti insieme. Aveva nel frattempo apparecchiato sul tavolo libero e tutti presero posto. 

Fu un momento gaio e spensierato, dove i grandi parlavano del più e del meno e i cuginetti giocavano allegri tirandosi le molliche. Ogni tanto non mancava una sgridata delle mamme perché non buttassero molliche verso la carne e loro fecero di tutto per starci attenti.

Passò anche quella giornata. 

Il maiale era già salato e l'indomani avrebbero preparato le salsicce.

In cucina permeava un forte odore di peperoncino che esalava dall'impasto nella "spase".

Michele ricordò quando avevano infornato il peperoncino nella cucina a legna. Quel giorno non aveva fatto altro che starnutire, tanto era forte e quell' odore di peperoncino al forno era durato per giorni! Di solito la mamma lo faceva tutto nel forno grande, ma quell'anno aveva deciso di farlo a casa, a poco a poco.

La preparazione del maiale per tutto l'anno impicciava per tre, quattro giorni, tutta la famiglia, ma era sempre una festa. Si preparava abbondanza di companatico per tutto l'anno e oltre. 

Le soppressate erano piccole prelibatezze da gustare in occasioni importanti o in compagnia. Erano fatte con la carne più pregiata e più magra del maiale e venivano insaccate nelle budella più grandi. Il resto veniva consumato più giornalmente. 

La “carne salata” erano pezzi di lardo con qualche striatura di magro cosparsi da tanto sale e peperoncino e maturavano pian piano nell' acqua stessa che scolava per, poi, essere lasciati essiccare appesi alla “mazze” al soffitto: una prelibata pancetta. 

Cosa a parte erano i capicolli che non venivano insaccati, ma arrotolati su stessi e legati stretti stretti con delle listarelle di canna.

Il terzo giorno, quando i salumi erano ormai tutti pronti, se le ossa spolpate avevano ancora rimasugli di carne attaccata, venivano cotti a lungo insieme a ritagli e cotenne. In quell'occasione s'invitavano le persone che avevano aiutato e un bel piatto veniva recapitato fino a casa come ringraziamento.

Era anche quello un giorno di festa che spesso combaciava col capodanno. Un giorno in cui la carne abbondava e ci si riuniva in compagnia chiacchierando a lungo.

Michele era felice quando a casa c'erano anche gli altri parenti. Giocava coi cuginetti e ogni tanto si fermava ad ascoltare i discorsi dei grandi. 

In quelle occasioni, il tempo sembrava volare via ma, a sera, nel suo lettino, lo coglieva sempre un po' di malinconia, perché si avvicinava, sempre più, il giorno della partenza del padre.

Dopo aver sistemato il maiale e appese le salsicce alle “mazze”, nella stanza del forno, la mamma e la zia lavarono e misero a posto, tutte le cose che avevano adoperato e ripresero la solita vita. 

Nel frattempo, Rocco ne aveva approfittato per aiutare qualche giorno in campagna ed aveva dato una mano per finire di raccogliere le olive rimaste sugli alberi e fare un po' d'olio da conservare prima di partire nuovamente per la Germania. 

Nei giorni dopo capodanno, il tempo regalò delle belle giornate. Fredde, ma limpide e serene che fu un piacere lavorare tutti insieme in campagna. Michele e Nunzia si divertirono tanto a correre in mezzo alle poche reti che la mamma andava spostando di qua e di là per raccogliere i preziosi frutti, ma aiutarono anche come poterono. 

Mangiarono il pane con il formaggio seduti per terra e per loro fu una scampagnata in allegria con la famiglia, felici di avere accanto il papà che non avrebbero rivisto per tanti mesi. 

Finito il raccolto, Rocco si accordò col frantoio e un giorno prima dell'Epifania macinarono le olive. Michele, naturalmente, volle essere presente. Anche lui, in campagna aveva riempito il suo piccolo secchio, facendo la sua parte ed ora trovava giusto partecipare anche alla nascita vera e proprio dell'olio. 

Di mattina presto, suo padre era uscito a caricare la "tramoggia" e lui con la mamma, prima di raggiungerlo, passarono " arra petèhe" a comprare un pacco di biscotti e alcune birre da regalare agli operai del frantoio. 

Curioso com'era, al frantoio non stette fermo un minuto e tartassò di domande gli operai, che, incuriositi a loro volta da quel vispo bimbetto, lo presero a benvolere e gli spiegarono tutti i passaggi che stavano facendo. Ogni tanto lo mandavano a mettere un po' di sansa nella stufa e lui si sentiva importante nell'aiutare. In realtà non era la prima volta che andava al frantoio, ma vuoi per la presenza del padre, vuoi la curiosità dell'olio fresco, quella volta si sentiva più contento, più invogliato a sapere, a conoscere.

Dopo qualche ora, finalmente l'olio, cominciò a grondare giù nella vasca dai “fìscule” ben spremuti allineati nelle presse, e quel rivolo d'oro sembrava stonare col nero simile a sudiciume, intorno. L’operaio esperto, con un piatto di stagno, raccoglieva l'olio separandolo dall'acqua e riempiva man mano i vari recipienti che gli passava la mamma. Uno, due, tre...il profitto era stato eccellente e i genitori di Michele erano grati per quella provvidenza. Sul pane, l'olio caldo era qualcosa di indescrivibile e lo gustò con vero piacere. 

Tutte le sue fatiche erano state ripagate ed era davvero contento.

Il giorno delle Befana, Michele e Nunzia trovarono qualche caramella, delle noci e una tavoletta di cioccolata, vicino al cuscino. Naturalmente, i dolci erano sempre quegli stessi che aveva portato il papà dalla Germania, ma i bambini furono felici ugualmente. 

La cosa che rattristava Michele era, invece, la partenza di suo padre e quel giorno purtroppo, arrivò anche in fretta.

Come al solito, venne la macchina di “Pèppe Abbattiste”, il noleggiatore, a prenderlo fino a casa e caricarono le pesanti valigie dove la mamma aveva cercato d'inserire tante cose buone da mangiare. Giusto qualche provvista della loro terra natia per non fargli sentire tanto la nostalgia di casa.

Normalmente, a quel tempo, le stazioni ferroviarie pullulavano soprattutto di giovani mariti soli che partivano con le loro valigie pesanti e i cuori ancor più...

"Avanti, va, come t’àgge prummìse, la prossima vote ca torne, te porte che ‘mmève arra stazione... quanne torne ad Ahùste!"

“Avanti, va, come ti ho promesso, la prossima volta che torno, ti porto con me alla stazione...quando torno ad Agosto.”

"Sì, me ru dice sèmpe e na ru faije maije..."

“Si, me lo dici sempre e non lo fai mai…”

"Tu nan te ne ‘ncarecà e pò vide, ad Ahùste te porte. Mò, me raccumanne, faije sèmpe lu brave e scrìvime tanta lèttere, ca ije r’aspètte, va bbuone?"

“Tu non ti preoccupare e poi vedi, ad Agosto ti porto. Ora, mi raccomando, fai sempre il bravo e scrivimi tante lettere, che io le aspetto, va bene?”

Michele si strinse al collo del padre e si mise a piangere liberando le lacrime che aveva sempre cercato di trattenere. Ogni volta era sempre più brutto separarsi e la mancanza si faceva sempre più pesante man mano che cresceva.

Papà partì e Michele ricadde in una strana tristezza soprattutto quando sua madre smontò il suo bel presepe e ripose le belle palline di vetro, arrivate dalla Germania. 

Lei gli aveva chiesto di aiutarlo, ma non se la sentì e rimase in camera sua a leggere fumetti. Nunzia, invece, fu felice di aiutare la mamma a riporre con cura quegli oggetti tanto cari.

La malinconia di Michele andò scemando man mano che passavano i giorni e tornare a scuola e rivedere i compagni, lo aiutò a distrarsi. 

Dopo il Natale, i suoi amici, già pensavano al loro Carnevale, quello dei piccoli divertimenti per le strade.

Una mascherina di carta, qualche vecchio vestito e tanto baccano facevano a Carnevale, e le cose presero il verso di sempre…




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